Mentre il mondo intero era distratto da altre faccende, la giunta comunale di Torino ha trovato il modo di riunirsi per deliberare la trasformazione della SMAT – società 100% pubblica, detenuta per quasi il 70% dal comune di Torino e per il resto dagli altri comuni soci – in azienda speciale di diritto pubblico. Non è ancora fatta - dovrà essere acquisito l’assenso anche di altri soci di minoranza, essendo il quorum per decidere pari al 75%: molti hanno annunciato battaglia, ma la via pare segnata.

Mentre l’Italia è barricata in casa, mentre ognuno pensa con angoscia alle aziende che rischiano di chiudere, all’economia del paese che rischia di fermarsi, mentre milioni di persone non sanno se alla fine dell’emergenza sanitaria troveranno ancora un lavoro ad aspettarle, c’è evidentemente chi ha tempo e voglia di combattere battaglie ideologiche senza senso, per la sola volontà di segnalare l’esistenza in vita delle proprie follie.

Non è servito a niente lo studio commissionato a un gruppo di lavoro di economisti e giuristi, il quale ha concluso in modo inusualmente netto a sfavore del progetto. Altro che “economisti con una mano sola”, come pare invocasse il presidente Truman, afflitto dagli “on the one hand” e “on the other hand” con cui la categoria è solita smarcarsi dalla richiesta di prendere posizione. Lo studio ha decretato che, on the one hand, dalla trasformazione non c’è da attendersi nessun beneficio; on the other hand, sono pressoché certi costi e danni per la collettività, per gli utenti e per le casse pubbliche. Nonostante ciò, la giunta Appendino ha deciso che la volontà politica sarà sufficiente a trasformare il brutto anatroccolo in un cigno (speriamo bianco, e non nero).

E così, un’azienda florida, che offre livelli di servizio tra i più elevati del paese, che ha investito quasi mezzo miliardo di euro negli ultimi 5 anni, si appresta a trascorrere qualche anno in apnea, dando un sacco di lavoro ad avvocati e legulei; riprenderà vigore la macchina dei convegni e dei dibattiti pubblici – una necessaria boccata di ossigeno dopo lo stop forzato imposto dal coronavirus. Chiuderanno i cantieri, ma quelli in fondo non importano a nessuno.

Non è servito a niente constatare il fallimento inappellabile dell’esperienza napoletana – laddove si è riusciti a fare carne di porco di un’azienda discretamente funzionante nel nome dell’ideologia benecomunista. A chi si ricordasse l’articolo che su queste colonne ho scritto un anno fa, rendo noto che assolutamente nulla è cambiato da allora, neppure – per quel che mi consta – l’approvazione del bilancio 2014 (!), tuttora sospesa per l’impossibilità di accertare i crediti che l’azienda vanta nei confronti delle utenze pubbliche morose o inadempienti.

Non è servito a niente avere sotto gli occhi l’esempio di Reggio Emilia, dove dopo anni di vani tentativi di dipanare il groviglio di questioni giuridiche sollevate dalla trasformazione in azienda interamente pubblica della preesistente gestione affidata alla quotata IREN, si è infine scelto di optare per una società mista con socio privato per la scelta del quale è infine stata bandita la gara: mentre nel frattempo il servizio è rimasto nel limbo di un affidamento in proroga al precedente gestore.

A niente serve richiamare che un’azienda speciale incontrerebbe difficoltà enormi nell’accedere al credito, non ultimo per la necessità di consolidare i conti con quelli degli enti locali proprietari assoggettandosi agli stessi limiti cui è soggetta la finanza pubblica.

A niente serve fare notare che tutti i pretesi vantaggi della forma giuridica pubblicistica – dalla trasparenza della governance all’assenza di fine di lucro – possono essere facilmente riprodotti anche nella forma societaria privatistica, solo volendolo fare: essendo i sindaci gli azionisti, sono essi stessi che possono deliberare il reinvestimento degli utili per autofinanziare la società invece della distribuzione di dividendi, che peraltro i sindaci non intascano ma utilizzano, si immagina, per alimentare il bilancio comunale e quindi altre politiche pubbliche.

Quella contro le Spa pubbliche è praticamente l’ultima rimasta di una serie di battaglie oscurantiste che il grillismo dei tempi d’oro aveva lanciato per accalappiare consenso a buon mercato. Zittiti i no-vax, messi nell’angolo gli oppositori del gasdotto TAP, sommersi dal ridicolo i sostenitori dell’esistenza delle scie chimiche, quando l’emergenza rifiuti romana era riuscita ad incrinare perfino il compatto fronte dei “no-inceneritori”, l’“acqua pubblica” restava l’unico possibile terreno su cui incassare un qualche dividendo politico. La Spa pubblica, in quanto Spa, ossia forma giuridica funzionale alla gestione delle imprese private orientate al profitto, sarebbe ontologicamente inadeguata ad occuparsi del “bene comune”: con una paccottiglia di argomenti del genere, fumosi e astratti, smentiti e contraddetti così tante volte che si perde la voglia di ripeterli; ma evidentemente capaci, come un fiume carsico, di ritornare ad emergere sempre uguali, come un rimosso freudiano di cui l’ur-marxista che si nasconde nell’inconscio della maggioranza degli italiani non riesce a liberarsi.

A livello nazionale, ci aveva provato l’armata brancaleone con capitesta l’on. Daga, prima firmataria di un disegno di legge assurdo, all’epoca oggetto di preoccupata attenzione anche su queste colonne. Le concomitanti vicende governative nazionali avevano messo la sordina su questa nefasta proposta, ma l’instancabile macchina dell’autolesionismo si è rimessa in moto a livello locale.

Ma cosa vuol dire “acqua pubblica”? Ai tempi del referendum se ne sono dette e scritte di cotte e di crude.

L’acqua – intesa come risorsa idrica – appartiene al demanio pubblico. Ogni suo uso è legittimo solo se autorizzato dallo Stato – in Italia sono le Regioni a detenere i poteri in materia. L’autorizzazione ha in ogni caso il dovere di contemperare le ragioni degli impieghi antropici con quelli della salvaguardia degli ecosistemi e delle “funzioni ecologiche” dei corpi idrici. Nel decidere, in caso di usi concorrenti che dovessero contendersi la stessa risorsa, l’uso umano deve avere la priorità, e subito dopo quello agricolo.

La direttiva 2000/60 stabilisce peraltro che tutti gli usi, compreso quello civile, devono essere organizzati nel quadro di un sistema che garantisca il mantenimento del “buono stato ecologico”.

L’acqua – intesa come bene fruibile dalle persone – è riconosciuta come un diritto universale già dalle Nazioni Unite. Secondo un approccio che in economia è stato teorizzato per primo da Amartya Sen, l’acqua fa parte di quelle “funzionalità di base” (capabilities) la cui disponibilità deve essere garantita a tutta l’umanità. Se vogliamo essere più precisi, di questo diritto fanno parte non solo l’accesso all’acqua potabile in quantità sufficiente a soddisfare i bisogni alimentari, ma anche quelli igienici e sanitari; altrettanto importante è quindi la disponibilità di sistemi fognari adeguati, della possibilità di lavare se stessi, i propri indumenti e le proprie abitazioni.

Poiché nel mondo moderno questo pacchetto di “funzionalità” è impensabile senza la mediazione di un sistema di infrastrutture tecnologiche, è il “servizio idrico”, più che la risorsa in sé, a costituire oggetto di attenzione. Il servizio idrico – inteso come l’insieme di servizi che garantisce il funzionamento delle infrastrutture idriche e fognarie, e quindi rende concreto l’accesso all’acqua soprattutto nelle aree urbane – costituisce perciò l’esempio per eccellenza di ciò che si intende per servizio pubblico: un servizio cioè le cui caratteristiche, modalità di erogazione e di finanziamento sono disciplinate dallo Stato, al fine di conseguire gli obiettivi pubblici che essi sottendono.

Significativamente, il diritto europeo ha adottato un’innovazione terminologica fondamentale, con il concetto di “servizio di interesse generale”: a ribadire che non è tanto la natura pubblica del soggetto gestore a rilevare, né il finanziamento a carico della fiscalità generale, quanto piuttosto le finalità pubbliche – l’accessibilità universale, la garanzia della continuità del servizio, l’equa distribuzione dei costi, la tutela ambientale. Finalità che possono essere conseguite in molti modi, anche in regime di mercato, dove è possibile che questo operi secondo modelli concorrenziali; e dove non è in alcun modo possibile, come nel caso idrico, ad erogare i servizi possono essere tanto imprese pubbliche quanto imprese private; la scelta tra le diverse soluzioni deve essere guidata da un criterio di efficacia, più che da ragioni di tipo ideologico.

La norma nazionale declina questi principi affermando tutto ciò a chiarissime lettere, e prevedendo strumenti – come il bonus idrico – che concretizza il “diritto all’acqua” anche per i meno dotati economicamente.

D’altra parte è necessario non dimenticare che al fine di garantire i diritti universali – in Italia come ovunque – è necessario che il servizio idrico sia gestito in modo efficiente, e che chi lo gestisce sia in grado di effettuare gli investimenti necessari. Il che, non potendosi fare a spese della fiscalità – neppure mascherata sotto forma di qualche “hydro-bond” garantito dallo stato, chiama in causa necessariamente il mercato finanziario. Questo non vuole affatto dire che debba essere un privato a gestire le aziende: anzi, la letteratura economica ha mostrato ad abundantiam che non esistono significative differenze di performance tra aziende pubbliche e private. Ma a patto che di aziende si tratti: ossia soggetti organizzati come imprese, atte a una gestione industriale cui necessitano rapidità decisionale, unità di comando e di strategia, visione aziendale orientata alla creazione di valore.

Questo è ancor più vero in un paese nel quale, vale la pena di ripeterlo, la proprietà delle aziende è saldamente in mano pubblica nella quasi totalità dei casi. Le meno pubbliche tra le aziende idriche sono le multiutility quotate, come Hera, Iren e Acea, dove peraltro la parte pubblica conserva la maggioranza del capitale; mentre tra le società “in-house” è in corso un processo di graduale consolidamento che, soprattutto nel nord-est del Paese, sta portando alla costituzione di aziende idriche dalle spalle molto più robuste che in passato, e prova ne sia proprio la stabile ripresa degli investimenti e il continuo miglioramento degli indicatori di qualità.

Quello che andrebbe lodato come una prova della vitalità dell’imprenditoria pubblica è invece rappresentato come un nemico travestito: un finto pubblico, che di tale avrebbe solo il nome, operando secondo logiche antitetiche. Anziché misurare la validità di simili affermazioni sul piano fattuale – con i dati, gli indicatori di performance, i confronti tra il prima e il dopo, tra quelli bravi e quelli meno bravi – si preferisce il terreno del vaniloquio astratto e del formalismo fine a se stesso.

Se qualcosa abbiamo imparato negli ultimi anni è semmai che a fare la differenza è la qualità del sistema di regolazione. Proprio la regolazione indipendente – che i “benecomunisti” continuano a sbeffeggiare trattandola come la quinta colonna del neoliberismo, tanto da auspicarne lo smantellamento – è ciò che ha permesso di avviare un percorso virtuoso, grazie al quale gli investimenti sono ripresi (pur senza avere ancora raggiunto il livello auspicato a regime), la qualità del servizio è stata finalmente monitorata in modo capillare e uniforme in tutto il paese, e il percorso di adeguamento e miglioramento si è avviato.

Sono passati nove anni dal referendum 2011, e se non si può dire che tutto funzioni a meraviglia, sono però sotto gli occhi di tutti i passi avanti che si sono conseguiti ovunque il sistema sia andato a regime. È sconcertante che, anziché concentrare l’attenzione su quelle parti del paese in cui invece le cose stentano ancora a migliorare, ci si dia da fare per scassinare quel che invece funziona.