Tra le tante frottole con cui i “benecomunisti” hanno inondato il discorso pubblico in materia di acqua una è particolarmente tenace. Il voto di massa del popolo italiano contro “la privatizzazione” sarebbe stato tradito, si afferma, in quanto i servizi continuano ad essere gestiti da società per azioni – entità malefiche costituite a fini di lucro. Non rileva che l’azionista sia quasi ovunque un soggetto pubblico, e che l’eventuale distribuzione di ancor più eventuali utili sia comunque destinata alle casse dei comuni (e qualora non bastasse la volontà politica di non farlo, possa ben soccorrere una norma statutaria o un patto parasociale).
Ma c’è un’isola felice, Napoli, dove il Verbo referendario ha trovato piena incarnazione, tramite la costituzione di un’entità di diritto pubblico dedita al Bene Comune. Se qualcuno non fosse ancora convinto dell’assurdità di molte delle proposte contenute nel “ddl Daga”, potrebbe essergli utile un esame approfondito della vicenda dell’acqua napoletana.
A Napoli, un tempo, il servizio acquedottistico era gestito da Arin, società controllata al 100% dal comune e titolare di un affidamento diretto, istituita nel 2001 attraverso la trasformazione in SpA della preesistente municipalizzata, a sua volta creata nel 1996 dopo la fine della concessione all’azienda privata anglo-belga che aveva operato. Un percorso simile a quello di tantissime altre aziende pubbliche locali. Senza grandi acuti, ma anche senza infamie, anche grazie a una dotazione di risorse favorevole. La depurazione, invece, era in capo a una gestione commissariale creata per sovraintendere all’impegnativo piano di risanamento del bacino scolante nel Golfo di Napoli; questa a sua volta aveva affidato diversi lotti in concessione a soggetti privati. La fognatura era gestita in economia dal comune.
La neo-costituita ABC, azienda speciale di diritto pubblico, avrebbe dovuto incorporare tutte queste realtà; le cose sono però andate a rilento, e a tutt’oggi essa gestisce solo l’eredità della vecchia Arin, più qualche spezzone del resto. Per anni strombazzata come icona del movimento, vezzeggiata dai media simpatizzanti, con modalità che ricordano le immortali interviste di Gianni Minà davanti a Fidel Castro (che peraltro non si è fatto scrupolo di affidare la gestione del servizio idrico dell’Avana alla multinazionale Suez), ABC avrebbe dovuto rappresentare una sorta di showroom della nuova gestione partecipata dei beni comuni traducendo in realtà le utopiche visioni, invero affascinanti, che i guru del movimento, Ugo Mattei in testa, avevano descritto.
Già all’atto della creazione, ABC partì con il piede sbagliato. Arin aveva riserve di capitale (utili non distribuiti) per 16 milioni di euro, e vantava crediti verso il comune di Napoli per forniture idriche alle diverse utenze pubbliche per circa altrettanto. Il comune pensò bene di auto-azzerare il debito accumulato, confiscando di fatto le riserve.
Uno degli aspetti più innovativi avrebbe dovuto essere rappresentato dalla governance, pensata con l’obiettivo di favorire la partecipazione attiva: un Consiglio di sorveglianza, costituito da 21 membri, nominati da comune, utenti, dipendenti e ambientalisti; un Comitato civico, costituito da un’Assemblea plenaria di chiunque volesse partecipare; un Gruppo di lavoro con funzioni di “portavoce”, avrebbe invece permesso ai cittadini di esprimere proposte.
Spulciando nel sito di ABC, si ritrova qualche frammento che lascia immaginare il successo dell’operazione. Il Consiglio si riunì in tutto un paio di volte, e solo per discutere questioni relative all’inquadramento contrattuale e al trattamento pensionistico dei dipendenti preesistenti e dei nuovi assunti – questioni importanti, ma, come dire, un po’ distanti da quello che ci si aspetterebbe debba essere il tema di un organo siffatto nell’economia dei beni comuni. Quanto al Comitato civico, batté un solo colpo (una manifestazione pubblica per celebrare i beni comuni), piombando poi nel totale silenzio. Mai, che si sappia, tali adunanze si sono riunite per discutere – che so – di tariffe, di piani di investimento, di priorità strategiche, di qualità del servizio, di ambiente, dei rapporti con il resto del territorio.
Uno sforzo particolare avrebbe dovuto compiersi per addestrare i dipendenti facendoli sentire protagonisti del progetto. Lo stipendio dei dirigenti sarebbe stato limitato, perché servire il bene comune è un privilegio e non una fonte di lucro. “L’impegnativo lavoro di costruzione delle maestranze consapevoli dei beni comuni” dichiarava all’epoca Mattei, riuscendo a restare serio, darà “frutti insperati in termini di soggettivizzazione”. Ai dipendenti in effetti l’azienda riserva un occhio di riguardo, promuovendo iniziative atte a migliorare la qualità del lavoro e le relazioni sindacali (dalla “banca delle ferie” agli orari adattati ai carichi familiari), non lesinando assunzioni nel caso in cui qualche gestione contermine dovesse lamentare esuberi.
Per il resto, ben poco lascia trasparire segnali di discontinuità rispetto al passato. La gestione del servizio idrico continua a funzionare abbastanza bene, più o meno come prima. La gran parte dei cittadini napoletani pare non essersi accorta di nulla. L’azienda si vanta di molte iniziative (dalla pubblicazione dei dati sulla qualità dell’acqua all’utilizzo delle tariffe sociali, dall’equilibrio di bilancio, in lieve utile, alla ricerca delle perdite con tecniche innovative) che peraltro sono adottate da tutti i gestori, anche perché previste dal regolatore nazionale. Sono in cantiere azioni certamente lodevoli (come il bilancio sociale), che ormai quasi tutti i gestori adottano regolarmente da anni.
La nota dolente sono gli investimenti. Sarà anche vero che la gestione degli appalti nella vecchia Arin era opaca, ma certamente non può considerarsi un rimedio il non farne praticamente più (gli investimenti sono precipitati al minimo storico di 4 euro/anno per abitante). Qualcuno si lamenta dei “poteri forti” per il fatto che le banche non concedono credito; d’altra parte, nessuna banca concede credito a un’azienda che attende ancora l’approvazione definitiva del bilancio 2014 (il sito aziendale riporta come ancora da approvare i bilanci 2014-2015-2016 e quello del 2017 non è pubblicato nemmeno in bozza). Né si può dire che il calmiere agli stipendi dei dirigenti abbia favorito l’accorrere dei manager più preparati.
Chi sperasse di trovare qualche notizia sul sito dell’azienda, tuttavia, farà meglio a cercare altrove. Delle dimissioni a ripetizione di presidenti e membri del CdA, ad esempio. Del perché da oltre tre anni l’azienda sia amministrata da un commissario straordinario. Dei defatiganti “confronti” con la Regione per ripartire i proventi di fognatura e depurazione, questione impantanata da anni. Delle pressioni politiche ad assumere dipendenti di questo o quel pezzo di gestione commissariale della depurazione. Della situazione finanziaria a dir poco caotica, con crediti registrati a bilancio ma mai riscossi, soprattutto verso enti pubblici, cui da anni vengono erogati servizi in assenza di contratti che ne disciplinino le modalità.
Si tace che l’Autorità nazionale sia intervenuta in più di un’occasione lamentando irregolarità. In particolare, nella gestione delle partite all’ingrosso, laddove ABC acquista acqua dall’esterno a una certa tariffa, per rivenderla ad altri gestori confinanti al capo opposto della rete, a un prezzo più alto, in teoria per coprire i costi sostenuti da ABC per questo servizio di trasporto, ma in pratica includendo un consistente “aggio” di monopolio.
In definitiva: il ddl Daga prende a modello ABC in nome di una sua presunta superiorità, così schiacciante rispetto ai “fallimenti della privatizzazione” da giustificare un intervento normativo radicale, tale da destrutturare il sistema esistente per ricostruirlo dalle fondamenta. Chi nell’esperienza napoletana è capace di trovare segni che comprovino ciò, si faccia avanti.