Nonostante i picchi record raggiunti dal termometro, l’estate 2019 è trascorsa senza particolari fenomeni di crisi idrica (almeno in Italia). Il che non vuol dire che non sia il caso di occuparsene: l’occasione è anzi propizia per poterne ragionare senza l’assillo dell’emergenza e il rumore mediatico che ha accompagnato l’annus horribilis 2017, nel quale perfino Roma ha corso seriamente il rischio di sospendere l’erogazione.

Numerosi segnali mostrano un preoccupante aumento della frequenza delle situazioni critiche. L’acqua è sempre più un “bene economico” – il che non vuol dire che è un oggetto di lucro, ma semmai che è un bene sempre più conteso, e che la sua allocazione richiede sempre più delle scelte mutuamente esclusive.

È pur vero, e continua ad essere vero nonostante i cambiamenti climatici, che l’Italia è un paese ricco di acqua. Di questo deve ringraziare le sue montagne, le sue foreste, la permeabilità del suo suolo. Non solo ne ha tanta, ma soprattutto ce l’ha facilmente accessibile, dove serve e quando serve. Non solo al Nord, ma anche al Sud. Con le dovute eccezioni, è chiaro: come la Puglia, le Isole, la Romagna.

Avendone tanta, e potendone usufruire a costi (relativamente) bassi, si è però abituata a usarne con larghezza. Non da oggi. L’irrigazione, che sfrutta sapientemente il deflusso imbrigliandolo e incanalandolo in una rete di migliaia di km di canali, si è sviluppata a partire dall’Alto Medioevo. L’agroalimentare, eccellenza italiana, è sempre più dipendente dall’acqua: l’irrigazione permette di adattarsi ai capricci del clima, regolarizzando i cicli stagionali e permettendo di investire in coltivazioni molto più redditizie, ma anche più rischiose. Il nostro sistema acquedottistico, da sempre, è costituito da una miriade di reti che si estendono su ambiti geografici molto ristretti, potendo contare su pozzi e sorgenti un po’ dovunque.

Più si dipende dall’acqua, più si è vulnerabili quando ce n’è meno del solito. Così, bastano un anno con poca neve, una primavera poco piovosa, un anticiclone africano un po’ più tenace per mettere il sistema in difficoltà.

Se la natura è avara, bisogna aguzzare l’ingegno: se c’è meno capitale naturale, occorre più capitale fisico (infrastrutture, tecnologia, impianti) e più capitale sociale (organizzazione, condivisione, regole, comportamenti collettivi, istituzioni legittimate a governare, ossia a prendere decisioni su cosa tenere e cosa sacrificare). Due cose che costano non solo in termini economici (tariffe più alte) ma anche politici: molti più “no” da pronunciare, molta meno libertà di fare ciascuno il proprio comodo, meno potere alle comunità locali, costrette a delegare la gestione a sistemi esperti.

La siccità c’è sempre stata, e sempre ci sarà.  Con ogni probabilità, i cambiamenti climatici la renderanno più frequente ed endemica. Il vero problema non è la siccità, ma l’emergenza: l’essere costretti a decidere a corto raggio, quando i margini di scelta inevitabilmente si restringono e le vittime necessariamente si moltiplicano.

Come tutti i capricci della natura, anche la siccità fa tanti più danni quanto più ci coglie impreparati. Va detto che, per fortuna, non è poi tanto vero che lo siamo, anche se per riflesso condizionato ricorriamo al frasario emergenziale, forse perché fa notizia e fa vendere più giornali. Da almeno un paio di decenni, il nostro Paese ha attivato meccanismi di governo innovativi, come le Autorità di distretto idrografico, che monitorano il bilancio idrico e cercano di anticipare situazioni di crisi, o le “cabine di regia” istituite per concertare con i vari utilizzatori le misure da adottare, e che hanno consentito di gestire efficacemente le crisi degli ultimi anni. E seppure con lentezza, gli investimenti nelle reti idriche sono ripartiti.

Certo, per gestire una temporanea scarsità bisogna sacrificare qualcosa. Come avviene dovunque ci sia poca acqua e se ne voglia usare tanta: dalla California all’Australia, dalla Spagna a Israele. Buona norma sarebbe trovare il modo di sacrificare gli usi di minor “valore sociale”, eventualmente compensandoli, invece di lasciare che la calamità colpisca a caso.

Il problema principale dell’Italia è invece che, abituati alla larghezza, abbiamo avvertito meno di altri il bisogno di investire in “resilienza”, ossia nella capacità di rispondere agli shock. Così ci riesce difficile spostare acqua da dove c’è a dove manca e concentrare l’offerta sugli usi di maggior valore sociale (ad esempio: le coltivazioni ortive in serra, sacrificando qualche po’ di cereali).

Intendiamoci: questo non è privo di senso. Chi vive ai tropici, difficilmente acquisterà cappotti e maglioni di lana. Ma se un giorno fa più freddo del solito, avendo solo camicie hawaiane, non saprà come coprirsi. D’altra parte, riempirsi di colbacchi e spazzaneve che non si useranno (quasi) mai è anche quello uno spreco. La prevenzione ottimale è, in altre parole, figlia della statistica. E si può garantire in molti modi: costruendo schemi idrici più intensivi, ma anche assicurandosi contro i rischi. Investendo in tecnologie water saving, ma anche modificando i piani colturali, sostituendo quelli idroesigenti con altri che lo sono meno.

Dire che “serve più capitale fisico e sociale” vuol dire più investimenti, più capacità gestionale e organizzativa. Vuol dire quindi, necessariamente, più industria, e anche più finanza.

Attenzione quindi, prima di dichiarare guerre sante ai nemici sbagliati. Qualcuno coglierà l’occasione delle restrizioni che inevitabilmente, qua e là, si dovranno prima o poi imporre agli utenti del servizio pubblico, a cominciare da quelli domestici. Le collegherà agli aumenti delle tariffe, che ci sono stati, certo, e assai salati. E lancerà anatemi contro la privatizzazione del bene comune, contro chi lucra profitti sulla sete delle persone, contro chi ha tradito il responso delle urne referendarie.

Ma sbaglierebbe completamente bersaglio. Nessun avido mercante sta facendo incetta dell’oro blu per speculare sulla sete. Nessuna multinazionale dell’agribusiness sta rubando l’acqua ai poveri contadini per gettarli sul lastrico. In Italia, se la siccità fa danni, li fa perché il sistema di gestione è ancora troppo locale, troppo poco industriale, troppo poco capitalizzato, troppo poco governato. E quindi più vulnerabile.