Grazie alla pubblicazione, a fine 2018, dello Special Report dell’IPCC, l’organo tecnico a supporto della Convenzione quadro sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, i Governi di tutto il mondo dispongono adesso di una roadmap chiara per le proprie emissioni di gas serra, in grado di rispondere al commitment dell’Accordo di Parigi del 2015: arrivare entro la metà del secolo a emissioni nette pari a zero, ossia la tanto agognata carbon neutrality. Una visione che anche la Commissione europea ha deciso di fare propria, presentendo nel novembre 2018 un proprio documento di indirizzo per una strategia climatica ed energetica dell’Unione.

La transizione verso una economia carbon neutral richiederà una trasformazione profonda e rapida che, oltre a dipendere da investimenti ingenti, potrebbe rivoluzionare nel volgere di appena tre decadi il modo di produrre, trasportare, conservare e consumare l’energia. A livello internazionale si parla di investimenti aggiuntivi dell’ordine di un punto percentuale di PIL, ma potrebbe trattarsi in realtà di una stima per difetto. Molti critici sostengono che si tratta di cifre che non possiamo permetterci e che avrebbero l’effetto di deprimere una economia, come quella italiana, già oggi in difficoltà. In realtà è parere di molti autorevoli economisti, e non solo, che la transizione energetica rappresenti una grande opportunità, con benefici importanti non solo per l’ambiente ma anche per lo sviluppo economico.

Da un lato, investire per stabilizzare il sistema climatico contribuirebbe ad attenuare le conseguenze negative del riscaldamento globale, che sono sempre più evidenti e che ogni anno che passa si mostrano più gravi di quanto previsto. Dall’altro lato, mettere in campo misure per promuovere importanti interventi strutturali nell’efficienza energetica, nella mobilità sostenibile, nelle fonti rinnovabili e in una economia circolare può stimolare una fase di ripresa economica con grandi benefici, innanzitutto sull’occupazione, uno dei temi più dolenti specie per le economie avanzate ed in primis per l’Italia.

In una ricerca presentata lo scorso aprile, la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, in collaborazione con l’istituto di ricerche economiche Cles, ha voluto analizzare le ricadute economiche che il nostro Paese avrebbe se perseguisse la transizione verso una green economy, tramite una analisi quantitativa con un orizzonte temporale tutto sommato breve, al 2025. Tra i settori analizzati, anche quello delle fonti rinnovabili, tecnologie essenziali per passare da un sistema energetico come quello attuale basato per oltre l’80% sul consumo di combustibili fossili, a uno fondato su sistemi di produzione sostenibili e a zero emissioni. Lo scenario che è stato adottato nello studio è in linea con la roadmap disegnata dall’Ipcc e con gli impegni sottoscritti con l’Accordo di Parigi e prevede, in particolare, un passaggio intermedio al 2030 con un dimezzamento delle emissioni nazionali di gas serra rispetto al 1990.

Per capire la portata di questo impegno bisogna ricordare che ad oggi l’Italia è riuscita a tagliare le proprie emissioni di meno del 20% rispetto al 1990 e che il recente Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, sempre al 2030, prevede un taglio di “appena” il 37%. Allo stesso tempo, il Parlamento europeo ha recentemente votato nel marzo di quest’anno una risoluzione per richiedere di rivedere al rialzo il target complessivo europeo da un -40% a un -55%.

Affinché l’impegno indicato di riduzione delle emissioni di gas serra possa essere raggiunto, nei prossimi anni il contributo delle fonti rinnovabili nel settore elettrico, del riscaldamento e dei trasporti dovrebbe aumentare in media di 2 milioni di tep ogni anno (a fronte dei circa 22 Mtep complessivi attuali).

Si tratta di una crescita pari a oltre 4 volte quella registrata negli ultimi anni, che nel 2025 dovrebbe portarci a produrre il 50% dell’elettricità da sole, vento, acqua e risorse geotermiche. È tuttavia bene ricordarsi che oggi non raggiungiamo il 35%. Un tale obiettivo significherebbe movimentare una spesa di circa 105 miliardi di euro, che attiverebbe oltre 335 miliardi di euro di produzione e genererebbe un valore aggiunto per le nostre imprese di 115 miliardi di euro, considerando gli impatti economici diretti, indiretti e indotti. In termini di occupazione tutto questo si tradurrebbe in oltre 312 mila occupati a tempo pieno (unità di lavoro) nel 2025, permanenti e temporanei, di cui oltre la metà concentrati sulle rinnovabili termiche, a cominciare dalle pompe di calore.

A questo punto potremmo dire che non sono tanto in discussione i possibili vantaggi economici e occupazionali di una transizione verso le energie verdi in questo Paese, ma piuttosto il come.

Come fare ad attivare nella realtà questo processo virtuoso? Quali politiche e quali misure si devono e si possono mettere in campo con effetti duraturi e a breve e medio termine? Dopo anni di attesa da parte del settore, nei primi di luglio è stato finalmente firmato dai Ministri competenti il nuovo decreto di incentivazione delle fonti rinnovabili elettriche mature (il c.d. FER1). In attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della versione definitiva, apprendiamo che le prime aste dovrebbero tenersi nella seconda metà del 2019 e che nel complesso il provvedimento dovrebbe consentire la realizzazione di circa 8.000 MW di nuova potenza installata nel prossimo triennio. Si tratta di un passo in avanti positivo, che porterà una boccata di ossigeno in un settore che negli ultimi anni a causa di deliberate scelte politiche e normative era stato messo all’angolo, arrivando addirittura a perdere posti di lavoro invece che guadagnarne. Ma è un passo decisamente ancora troppo corto, molto lontano dalla falcata che dovremmo raggiungere per poter conseguire quegli obiettivi ambientali, ma anche economici e occupazionali, che la salvaguardia del sistema climatico ci imporrebbe.