Oltre 4.000 km separano Roma da Capo Nord, ma con i cambiamenti climatici il Circolo polare artico è più vicino di quanto si pensi. La pesante ondata di freddo e maltempo che ha colpito il maggio italiano – e quello di larga parte dell’Europa centrale – trova il suo primo responsabile nell’Artico, che tende a surriscaldarsi in maniera superiore rispetto al resto dell’emisfero nord, determinando una serie di modifiche alla circolazione atmosferica che sono responsabili (anche) del freddo anomalo che abbiamo sperimentato nella primavera appena conclusa.
In un mondo dove tutto è connesso, il maltempo italiano e lo scioglimento dei ghiacci in Groenlandia che prosegue a ritmo accelerato – oltre 2 miliardi di tonnellate si sono liquefatte in un solo giorno, lo scorso 14 giugno – sono fatti collegati da un unico filo rosso, che oltre ai pericoli del clima che cambia si trascina dietro anche la radicale trasformazione di un’intera regione, che finora si è sempre mostrata respingente alle invadenti mire dell’homo oeconomicus.
Come mostra invece chiaramente l’Ocean state report aggiornato da Copernicus pochi giorni fa, dalla fine degli anni ‘70 al 2017 nell’Artico si è registrata una riduzione di circa 2 milioni di kmq dell’estensione dei ghiacci marini: è come se fosse scomparsa un’area grande quasi 4 volte la superficie della Spagna, in appena 40 anni. Un fenomeno che si è dimostrato finora irrefrenabile; riducendo anzi il periodo d’osservazione agli anni più recenti, dal 1993 al 2017, si nota un calo nell’estensione del ghiaccio marino di quasi 770.000 kmq (-5,89%) per decennio, che equivale ad aver perso ogni dieci anni una quantità di ghiaccio marino equivalente a ben oltre 2 volte la superficie della Germania. Un trend che, oltre a sconvolgere i delicati equilibri ecosistemici evolutisi nell’area, cambierà per sempre anche la relazione tra la nostre specie e l’Artico.
Da una parte le popolazioni autoctone delle regioni artiche, che tradizionalmente hanno sempre vissuto di caccia, pesca, raccolta o allevamento, devono fare i conti con un mondo gli si sta letteralmente sciogliendo sotto i piedi: circa 120.000 Inuit, 24.000 Yupik, 18.000 Aleuti, 450.000 Jakuti, 290.000 Komi, 40.000 Nency, 90.000 Tungusi e 75.000 Sami hanno di fronte un’unica scelta, adattarsi agli effetti di un surriscaldamento globale che non hanno contribuito granché a provocare, oppure migrare e dire addio al proprio stile di vita.
Si giocano invece su tutt’altro piano le mire dei Paesi industrializzati, che vedono nell’Artico l’ultima frontiera della crescita economica, e i principali player in questa corsa al Polo nord non sono soltanto Stati artici come gli Usa o la Russia, ma naturalmente anche la Cina, che nel 2018 ha lanciato il suo primo libro bianco sull’Artico e annunciato la volontà di far passare nel profondo Nord un ramo della sua nuova Via della seta. Il progressivo scioglimento dei ghiacci artici porta infatti con sé la possibilità di percorrere rotte commerciali finora precluse, ma molto promettenti: permetterebbero ad esempio un risparmio di tempo stimato in 25-30% per le navi cinesi dirette in Europa, rispetto a quelle che oggi passano attraverso il Canale di Suez.
La posta in palio più ricca – e rischiosa – sta però in ciò che i ghiacci hanno finora gelosamente custodito, ovvero risorse naturali. Come testimonia un recente report elaborato dall’Osservatorio di politica internazionale del Parlamento italiano, si stima che l’Artico possegga il 30% delle riserve di gas naturale e il 15% delle riserve petrolifere globali non ancora scoperte, che ospiti oltre il 15% delle risorse ittiche globali e, infine, che disponga di ingenti scorte di minerali, compresi quantitativi non trascurabili delle cosiddette terre rare – ad oggi estratte per circa il 90% in territorio cinese – divenute accessibili e sfruttabili grazie al miglioramento delle tecniche e delle tecnologie estrattive.
In questo contesto anche l’Italia è molto più che un osservatore interessato all’evolversi delle vicende artiche. Da una parte, la piena navigabilità delle nuove rotte commerciali potrebbe ledere agli interessi nazionali, in quanto rilancerebbe l’importanza dei porti del nord Europa a discapito di quelli mediterranei; dall’altra la compagnia di bandiera Eni dispone di un consistente know how sull’estrazione di combustibili fossili in ambienti ostili, quali appunto il Mar Glaciale Artico, ed è pronta a far valere il peso delle sue competenze nell’area.
Molto dipenderà dal prezzo del petrolio: se l’estrazione in Artico risulta oggi economicamente concorrenziale soltanto con un prezzo del barile superiore ai 70 dollari, con lo scioglimento dei ghiacci il punto di pareggio produttivo potrebbe abbassarsi intono ai 40-45 dollari per barile. In ogni caso, rimarrebbe un bruciante paradosso: ovvero sfruttare una delle più evidenti dimostrazioni del riscaldamento globale dovuto all’impiego dei combustibili fossili per estrarre ancora più combustibili fossili. Rispettare l’Accordo sul clima di Parigi e perseguire l’intento di condurre allo scopo nuove trivellazioni nell’Artico appaiono volontà del tutto antitetiche. E la scienza sembra aver già dato una risposta precisa al dilemma: keep it in the ground.
Le valutazioni rispetto all’impiego delle nuove rotte commerciali artiche ed eventualmente anche alle possibilità di accedere a importanti risorse di terre rare, ad oggi fondamentali per lo sviluppo dell’economia verde e di quella digitale, non possono invece che essere più sfumate. Al proposito rimarrà indispensabile soppesare al meglio i costi e i benefici in gioco, affidandosi al metro dell’indagine scientifica come suggerito dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr): «La comunità scientifica internazionale oggi è chiamata a individuare soluzioni sostenibili che tengano conto della complessità dei processi, delle interazioni, delle dinamiche e delle ricadute sul sistema globale delle scelte economiche e politiche dell’uomo. È necessario intensificare e integrare le attività di osservazione e monitoraggio per migliorare la comprensione del sistema artico, la qualità delle previsioni dei modelli meteorologici e climatici e il ruolo delle regioni artiche nel sistema globale terrestre».