I certificati bianchi rappresentano il principale meccanismo italiano per il sostegno all’efficienza energetica, tarato per stimolare gli interventi di maggiori dimensioni, come quelli nel settore dell’industria. Di recente il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, lo strumento previsto dalla Commissione Europea per l’attuazione a livello nazionale dei nuovi obiettivi climatici fissati per il 2030, ha ribadito la fiducia nel meccanismo dei certificati bianchi, da cui ci si aspetta un contributo al 2030 di circa 15 Mtep aggiuntivi di risparmi (simile a quello richiesto per il 2020), ma attraverso un impianto comunque rimodulato per stimolare investimenti anche e soprattutto nel settore civile, quello in cui si riscontra un potenziale di risparmio maggiore.
La scelta dei soggetti obbligati
Nella maggior parte delle esperienze internazionali, nei sistemi a mercato di promozione dell’efficienza energetica, gli obblighi sono assegnati a compagnie energetiche, siano essi retailer o distributori. L’idea sottostante è quella di imporre l’obbligo ai soggetti che sono più vicini al consumatore finale e che, in condizioni normali, avrebbero incentivo a incoraggiare l’incremento dei consumi invece che un loro risparmio. Idealmente, uno schema ben disegnato dovrebbe incentivare le imprese energetiche a scegliere la soluzione più economica, nell’ambito degli obiettivi individuati, tra l’incremento delle infrastrutture per la fornitura dell’energia e l’attivazione di misure di efficienza energetica.
L’Italia ha optato per imporre l’obbligo sui distributori di energia elettrica e gas naturale con almeno 50.000 clienti finali. La quota degli obiettivi che deve essere conseguita dalla singola impresa di distribuzione è determinata dal rapporto tra la quantità di energia elettrica/gas naturale distribuita dalla medesima impresa ai clienti finali connessi alla rete e la quantità di energia elettrica/gas naturale distribuita sul territorio nazionale dal totale dei soggetti obbligati.
Nella maggior parte dei paesi europei, nel breve/medio termine il profitto del distributore non è in funzione del volume di gas o energia elettrica distribuita, in quanto i regimi tariffari garantiscono la redditività delle imprese. Ciò, se da un lato riduce la rischiosità del meccanismo per il soggetto obbligato, dall’altro ne riduce il potere incentivante. D’altra parte i distributori non hanno un rapporto diretto con i consumatori finali, e la realizzazione dei progetti di efficienza impone necessariamente la presenza di intermediari. Un vantaggio invece è che i distributori, in quanto soggetti regolati, sono maggiormente identificabili e il loro numero e la loro identità tende a essere più stabile nel tempo rispetto a quella dei fornitori. La quantificazione, ripartizione e il successivo controllo del rispetto degli obblighi è dunque più semplice che nel caso dei fornitori. L’obbligo sui fornitori, al contrario, stimolerebbe un conflitto d’interessi tra aumento dei volumi venduti e obblighi di efficienza. In quanto soggetti direttamente coinvolti dal cliente, ne deriva un vantaggio in termini di maggiore coinvolgimento nelle esigenze aziendali del cliente stesso. Gli obblighi possono anche rappresentare un’occasione di potenziale diversificazione del business, tanto più necessaria quanto più stringenti sono gli obiettivi di risparmio energetico.
La pressione sui distributori: una soluzione efficace?
Nel meccanismo italiano è prevista sia la bancabilità che la flessibilità dei certificati. Per quanto riguarda la bancabilità, non ci sono limiti nel numero di certificati che ogni distributore può tenere in portafoglio. Il distributore può bancare i certificati in suo possesso e utilizzarli negli anni successivi. Ugualmente dal lato offerta: i soggetti che realizzano progetti e ottengono certificati non hanno alcun vincolo temporale per offrirli sul mercato. Tuttavia, a parziale contenimento della bancabilità, interviene la regola per cui se in un determinato anno i certificati emessi eccedono del 5% l’obbligo, per l’anno successivo l’obbligo viene incrementato della quantità eccedente. Per quanto riguarda la flessibilità, i distributori possono spostare ai due anni successivi fino al 40% del proprio obbligo senza incorrere in penalità. Il diverso grado di flessibilità per la domanda (che ha un obbligo minimo annuale) e per l’offerta, che non ha vincoli di quantità da rispettare, è indicato dai soggetti obbligati come un potente deterrente all’efficacia dei meccanismi incentivanti sui prezzi, in quanto fonte di potere di mercato strutturale da parte dell’offerta.
La normativa ha tentato di ovviare a questo squilibrio inserendo una serie di incentivi per i distributori a comportamenti attivi sul mercato. I prezzi medi di mercato fungono da base per la determinazione del contributo tariffario concesso a copertura dei costi di acquisto sostenuti dai distributori stessi. Nel tempo tale contributo è stato più volte rimodulato in modo da non costituire un mero rimborso a piè di lista. In particolare, a partire dal 2018 al contributo è stato posto un tetto massimo, pari a 250 € a certificato, in un periodo in cui i prezzi erano molto più alti. In tal modo qualsiasi spesa superiore da parte dei distributori non viene ricompensata. Alla luce della scarsità del mercato, ai soggetti obbligati è stata tuttavia concessa la possibilità di acquistare dal GSE certificati non corrispondenti a effettivi progetti di efficientamento, individuando così nel GSE un fornitore di ultima istanza. Anche in questo caso la normativa si è tuttavia premurata di fare in modo che lo strumento del fornitore di ultima istanza non trasformasse il meccanismo da sistema di mercato a sistema amministrato. In primo luogo i certificati acquistatati dal GSE non danno diritto alla copertura tariffaria, dunque rappresentano per il distributore una spesa netta. Tali certificati sono emessi a un prezzo unitario definito annualmente (a fine dell’anno d’obbligo) che è pari alla differenza tra 260 € e il contributo tariffario, con un massimo di 15 €. Inoltre, possono accedere al fornitore di ultima istanza solamente i soggetti che abbiano comunque acquistato un minimo di certificati, pari al 30% dell’obbligo, sul mercato.
Se il mercato è corto (offerta tendenzialmente scarsa rispetto alla domanda obbligata) i prezzi tendono a salire ma, se i distributori riescono a trovare sul mercato almeno il quantitativo minimo che serve per accedere al meccanismo di ultima istanza, nessuno dovrebbe essere disposto ad acquistare a un prezzo superiore a 260 € a certificato. La partecipazione al mercato e l’acquisto dal GSE causano infatti a questa condizione la stessa perdita per il distributore, perdita che dovrebbe assestarsi attorno a 10 € a certificato.
Se invece il mercato non è corto (offerta tendenzialmente abbondante rispetto alla domanda obbligata), i prezzi tendono a scendere. Quando i prezzi medi di mercato scendono sotto i 250€, più basso è il prezzo medio di mercato maggiore il prezzo di vendita per i distributori, fino a un massimo di 15 € a certificato. Questo dovrebbe potenziare il disincentivo a ricorrere al fornitore di ultima istanza quando il mercato non si trova in condizioni di scarsità.
Ci sono tuttavia circostanze in cui il costo per il distributore non coperto dal contributo tariffario può salire anche al di sopra dei 10/15 € a certificato come stimato sopra. Il conteggio effettuato si riferisce infatti al caso di un distributore che ha una spesa pari esattamente al prezzo medio di mercato. Ciò è naturalmente molto difficile da attuare, anche perché il prezzo di mercato utilizzato per il calcolo del contributo tariffario, e dunque anche per il calcolo del prezzo di vendita dei certificati del GSE, tiene in considerazione non solo i prezzi medi del mercato organizzato del GME, ma anche dei prezzi dei contratti bilaterali. Questi, per definizione, sono prezzi negoziali a cui hanno accesso solo le controparti del contratto.
È ’ così che il meccanismo del certificati bianchi si è progressivamente trasformato in una fonte di costo netto per i distributori di energia elettrica e gas. Il mercato negli ultimi anni è stato sempre corto con prezzi che sono saliti vertiginosamente. I correttivi introdotti nel 2018 – in particolare il tetto al contributo tariffario e la previsione del venditore di ultima istanza di certificati – hanno consentito di stabilizzare i prezzi attorno ai livelli attesi in caso di mercato corto, ossia tra 250 e 260 € a certificato. Questo però proprio a spese dei distributori: in base alle stime REF, i prezzi di scambio medi per questo anno di obbligo (giugno 2018-maggio 2019) sulla borsa sono stati vicino a 260€, mentre lato contributo tariffario si attiva il cap di 250€. Ne deriva una perdita netta (simile in caso di accesso al mercato o acquisto dal GSE) di 10€ a certificato. Considerando che i certificati da acquistare sono più di 5 milioni (2,5 per i distributori elettrici, 2,8 per quelli gas, senza considerare le flessibilità) ne risulta un costo complessivo per il settore, non recuperabile in tariffa, ci circa 53 milioni di euro. I distributori sono soggetti regolati i cui ricavi sono stabiliti dal regolatore in base ai costi efficienti, e che dunque non hanno nel complesso extra-rendite di mercato. Una situazione che prevede dunque un notevole esborso non coperto in tariffa da parte dei soggetti obbligati che difficilmente appare sostenibile in maniera prolungata. Tanto più che gli obblighi hanno una traiettoria crescente nel periodo, e già nel 2019 saliranno a poco meno di 6 milioni di certificati, con conseguente ulteriore aumento dell’esborso non coperto dalla tariffa se i prezzi rimarranno quelli attuali. La speranza dei decisori è che i prezzi elevati dei certificati e gli interventi di ampliamento dei soggetti ammessi al meccanismo recentemente attuati stimolino l’offerta di nuovi progetti di efficientamento, riportando il mercato in equilibrio e l’esborso non coperto per i distributori su livelli più contenuti.
La situazione di mercato non sembra tuttavia prospettare tale riequilibrio nel breve periodo.