Sfasciare tutto per non cambiare niente. La proposta di legge sull’acqua, che ha come prima firmataria la deputata Federica Daga, ha un obiettivo dichiarato: riportare in mani pubbliche il sistema idrico. Per raggiungerlo si affida a tre strumenti: la cessazione anticipata delle concessioni in essere, l’obbligo per i soggetti gestori di assumere una forma giuridica pubblicistica (ente pubblico o azienda speciale), e il trasferimento dei poteri in materia tariffaria dall’ARERA al Ministero dell’Ambiente, nonché del finanziamento degli investimenti dalla tariffa alla finanza pubblica. Se approvata, la norma produrrebbe però un paradosso: l’acqua è già pubblica. Quindi, la sua finalità può dirsi già raggiunta. Il problema è che, per poter sventolare una bandiera, il provvedimento farebbe crollare l’organizzazione di un settore che, in qualche modo, ha trovato un suo equilibrio.

La regolamentazione del servizio idrico, infatti, ha seguito nel nostro paese un percorso tortuoso. Nel 1994, la Legge Galli aveva iniziato a fare ordine nel settore, ponendo il principio “chi inquina paga” alla base del sistema tariffario (almeno in teoria) e avviando un percorso di razionalizzazione dei gestori. La crescente complessità industriale del ciclo dell’acqua rendeva l’estrema frammentazione un vincolo sempre meno sostenibile. Negli anni successivi, il parziale riordino dei soggetti gestori venne accelerato dall’obbligo – peraltro quasi mai rispettato – di affidare il servizio tramite procedure a evidenza pubblica. Tuttavia, il referendum del 2011 spazzò via tanto la contendibilità del sistema quanto il meccanismo allora in vigore di remunerazione degli investimenti. Il vuoto normativo che si venne a creare spinse il legislatore a cercare una via d’uscita, che venne trovata ammettendo diverse modalità di affidamento e soprattutto individuando nell’ARERA l’organismo a cui affidare la tariffa, inclusa la determinazione del costo dei capitali necessari all’ammodernamento delle infrastrutture. Questa evoluzione, che almeno sul fronte della regolazione tariffaria è indubbiamente migliorativa, è coerente con l’esito referendario, nonostante i promotori della consultazione abbiano attribuito al voto un significato politico che va ben al di là della lettera dei quesiti. La riforma Daga nasce proprio dal tentativo di riconciliare la narrazione referendaria col quadro normativo, ma rischia di generare solo entropia e nessun concreto miglioramento della situazione.

La rivendicazione della pubblicità della risorsa idrica può assumere due forme: può infatti riferirsi alla proprietà della risorsa, oppure al controllo degli operatori incaricati di gestire acquedotti, fognature e depuratori. La prima è pubblica per legge: “Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato”, dice il Codice dell’ambiente. La gestione del servizio, invece, nel nostro ordinamento può essere affidata a soggetti sia pubblici sia privati, attraverso una pluralità di forme: si va dalla gestione in economia all’affidamento diretto, dalla costituzione di società miste all’affidamento tramite gara. L’eventuale gestione da parte di un privato non equivale alla privatizzazione del servizio – perché esso, in ogni caso, torna contendibile allo scadere della concessione – ma è comunque assai marginale nel nostro paese. In un recente paper con Cosimo Melella, mostriamo che la quasi totalità delle gestioni è in mano a soggetti interamente o maggioritariamente pubblici. Meno del 5% è affidata a imprese di proprietà o a controllo privato.

Il problema del Ddl Daga, allora, è che scambia un aspetto sostanziale (la proprietà) con uno formale (la forma giuridica), e nel farlo travolge come uno schiacciasassi i pilastri del sistema idrico, pregiudicandone l’efficacia. In primo luogo, la trasformazione di imprese industriali (sebbene pubbliche) in enti pubblici implica non solo di assoggettarli a tutti i vincoli operativi e finanziari giustamente previsti per le amministrazioni dello Stato, ma anche l’obbligo di consolidarne i bilanci in quelli degli enti controllanti. In particolar modo, il debito dei gestori – quantificabile in oltre 17 miliardi di euro – andrebbe contabilizzato come debito pubblico. A questo si aggiungerebbero circa 2-4 miliardi di euro l’anno per finanziare il fabbisogno di nuovi investimenti.

Secondariamente, il trasferimento dei poteri tariffari dall’ARERA al Governo – e quindi dalla regolazione indipendente alla politica – farebbe venir meno ogni orizzonte di certezza, con un probabile incremento del costo dei capitali e minore programmabilità degli interventi. Giova sottolineare che il probabile rallentamento degli investimenti si scaricherebbe in massima parte sul servizio di depurazione (quello più bisognoso di nuovi impianti) e sul Mezzogiorno (dove la depurazione è meno capillare).

Terzo, spostare il baricentro del finanziamento dalla tariffa alla fiscalità sarebbe in patente contraddizione col principio alla base delle direttive ambientali europee, “chi inquina paga”. Peraltro, questo non ha nulla a che fare con la possibilità di riconoscere a tutti una quota di consumo “gratuito” o di garantire speciali agevolazioni alle famiglie meno benestanti (che ci sono già). Tutto ciò attiene alla costruzione della tariffa. Il tema è se, al di là degli aspetti di redistribuzione interna, il costo del servizio debba essere imputato ai consumatori, in proporzione a quanto consumano, oppure ai contribuenti, in ragione di quanto dichiarano.

La riforma del settore idrico, insomma, prende le mosse da un’illusione ottica (la confusione tra forma giuridica ed effettività del controllo) e colpisce quello che funziona nel settore (la regolazione), senza minimamente rafforzare ciò che non va (promuovere ulteriormente gli investimenti).