Una delle peculiarità del mercato elettrico europeo, almeno per come lo conosciamo dall’avvio delle liberalizzazioni, è che fatica a guardare lontano nel tempo. Nato con le direttive di fine anni Novanta con l'obiettivo di promuovere la competizione in un settore storicamente rigido e monopolistico, il disegno del mercato Ue si è strutturato intorno alla contrattazione di breve termine, in cui buona parte dell’energia viene scambiata giorno per giorno sulle borse spot. Un sistema ancora oggi dominante ma che a un ventennio di distanza ha iniziato a mostrare alcune criticità, (ri)portando alla ribalta forme di contrattualizzazione di più lungo termine, tra le quali rientrano i cosiddetti meccanismi di capacità.

Per tutta la prima giovinezza del mercato liberalizzato, che in Italia ha coinciso con l’attuazione del Dlgs Bersani 79/99 e con la stagione di investimenti post-blackout del 2003 ex Legge sbloccacentrali 55/02 (per lo più in nuova capacità a gas a ciclo combinato), il fatto che la negoziazione dell’elettricità – e quindi anche l’origine del segnale di prezzo per i nuovi investimenti – fosse interamente concentrata nel mercato a pronti non ha rappresentato un problema. La relativa scarsità e concentrazione dell’offerta degli albori hanno infatti garantito a lungo quotazioni medie del kWh sostenute, in grado di assicurare da sole la redditività degli impianti e quindi anche la loro bancabilità.

Un mondo molto diverso si è andato però delineando col secondo decennio del secolo, quando, proprio mentre lo slancio degli investimenti colmava ampiamente il gap tra domanda e offerta, la progressiva contrazione dei consumi dovuta alla crisi da un lato – con la recessione che ha eroso stabilmente una quota di domanda industriale – e l’emergere della produzione da fonti rinnovabili dall’altro, hanno modificato in profondità il quadro di riferimento.

Per la capacità di generazione convenzionale, tra cui anche quella di nuova realizzazione (quindi con costi di investimento ancora da recuperare), ciò ha significato un mercato contendibile doppiamente ridotto: per la minore domanda ma anche per le decine di GW di capacità di generazione solare e eolica divenute un insidioso concorrente, perché in grado, grazie all’assenza di costi variabili (sole e vento non costano nulla a differenza del gas) di prevalere senza sforzo sul mercato. Per di più proprio nelle ore centrali del giorno, ossia quelle storicamente di massima redditività per gli impianti termoelettrici, costretti così a una crescente inattività e a marginalità insufficienti.

In questo contesto, è tornato in auge nel dibattito - in Europa in generale - il tema dei meccanismi di capacità, ossia quei sistemi in grado di remunerare la disponibilità di capacità produttiva indipendentemente da un suo utilizzo continuativo, assicurando l’adeguatezza dell’offerta e un sufficiente stimolo agli investimenti attraverso un’integrazione alla redditività offerta dal solo mercato dell’energia a pronti.

In Italia, che dal 2004 disponeva di un capacity payment transitorio dagli impatti relativamente limitati, ciò ha portato alla messa a punto già nel 2011 da parte dell’Autorità di regolazione per l’energia elettrica e il gas (oggi Arera) di un modello a regime. La proposta del regolatore prospettava uno schema di mercato della capacità basato sull’approvvigionamento da parte del gestore della rete di trasmissione - in aste periodiche attraverso contratti differenziali - del quantitativo di capacità giudicato sufficiente su un orizzonte di medio periodo. Con l’obiettivo dichiarato di assicurare nel tempo un’offerta adeguata, a un costo ragionevole grazie alla natura competitiva dello schema, ma nel contempo scongiurando, grazie a un segnale di prezzo più "visibile" nel futuro, una stagione di chiusure “spontanee” di impianti con conseguente rischio di forte volatilità dei prezzi di mercato.

Negli anni successivi, per fronteggiare problemi simili, anche altri Paesi UE hanno messo in cantiere meccanismi di capacità più o meno simili: capacity market in Gran Bretagna, Irlanda e Francia (nel caso irlandese molto simile al nostro) e, altrove, come in Germania, meccanismi di riserva. Sistemi proposti dopo, ma in molti casi divenuti operativi prima di quello italiano.

In generale, in questi anni i mercati della capacità e gli altri tipi di capacity mechanism hanno scontato un atteggiamento sospettoso della Commissione Europea, che negli anni scorsi nelle sue linee guida sugli aiuti di Stato e in un report ad hoc ha sostenuto a più riprese che essi debbano rappresentare una extrema ratio, una risposta eccezionale di deroga al modello di mercato vero e proprio, che secondo Bruxelles dovrebbe restare quello della contrattazione a pronti. Un atteggiamento che, pur attenuatosi nel tempo, si conferma in parte anche nelle previsioni dell’ultimo Clean Energy Package.

Per l’Italia ciò, insieme ad una certa indecisione dello stesso governo, ha pesato sui tempi di avanzamento dello schema, che solo a inizio 2018 ha infine incassato l’ok dell’esecutivo UE e che dovrebbe finalmente arrivare all’avvio delle prime aste il prossimo autunno. Nel frattempo, il contesto non ha smesso di muoversi e cambiare: dalla situazione di forte eccesso di capacità del 2009-2011, periodo di gestazione della prima delibera dell’Arera, la ridotta marginalità ha portato in questi anni alla chiusura di una quota imponente di capacità di generazione convenzionale, con una progressiva erosione dei margini di riserva, una circostanza che potrebbe essere acuita dalla decisione - prevista dalla recente Sen - di uscire completamente dalla generazione a carbone dal 2025.

L’articolo qui ripubblicato è uno dei tanti che analizza le sfide del mercato elettrico, che più di ogni altro sta vivendo le trasformazioni legate alla transizione energetica. In passato abbiamo anche parlato di Demand Response, di Dispacciamento e di Prezzi Elettrici.