L’obiettivo del 32% di rinnovabili al 2030 recentemente indicato a livello europeo richiede anche all’Italia, già ben posizionata, uno sforzo straordinario, con investimenti cospiscui in tutte le fonti. Il fotovoltaico dovrà più che triplicare la potenza installata, l’eolico dovrà raddoppiarla. E l’idroelettrico? Oggi l’idrolettrico è ancora il “nocciolo duro” delle rinnovabili in Italia, assicurando in media oltre il 40% della generazione rinnovabile.

L’attuale parco consta di ben 3.700 impianti per un totale di 18,5 GW (ai quali si aggiungono circa 4 GW di pompaggi) e una produzione normalizzata intorno ai 46 TWh. Sebbene la potenza sia cresciuta negli ultimi anni grazie al mini-idro, la produzione totale media è rimasta sostanzialmente stabile a causa del calo del contributo dei grandi impianti.

Produzione idroelettrica italiana 1998-2017

Fonte: elaborazione Althesys su Terna

L’età media del parco idroelettrico è di oltre 70 anni e nel tempo vi è stata una progressiva perdita di producibilità: da circa 3.000-4.000 ore/anno degli anni Sessanta ai 2.300-2.400 degli ultimi anni. Maggiormente colpiti sono gli impianti ad accumulo medio-grandi al cui calo di producibilità hanno concorso i vincoli ambientali, la competizione nell’uso della risorsa e la necessità di manutenzioni straordinarie. Mentre si pianificano investimenti in nuova capacità in vista dei target al 2030, si rischia di perdere parte dell’esistente, dato il potenziale rischio di chiusura per gli impianti idroelettrici più costosi da gestire e ammodernare.

Le tendenze evolutive al 2030 mostrano, infatti, un lieve calo della generazione idroelettrica. Lo scenario europeo PRIMES prevede un aumento del 7,9% della potenza installata al 2030, ma una diminuzione dello 0,3% della produzione, di cui 7,8 TWh ad accumulo a fronte di un +35,1% ad acqua fluente. Il target della SEN 2017 di 50 TWh è peraltro allineato a quanto previsto dal PRIMES.

In questo quadro sono necessari interventi che consentano il rinnovamento degli impianti. Le analisi condotte da Althesys evidenziano un potenziale da ammodernare di 1.786 MW al 2020 che cresce fino a 5.772 MW al 2030. Questo potrebbe portare ad un incremento di produzione di 1 TWh al 2020, per poi salire fino a 3,4 TWh al 2030.

In assenza di interventi, invece, la perdita di produzione rinnovabile idrolettrica sarebbe consistente, sia rispetto alla situazione attuale che a un ipotetico scenario di rinnovamento. Nel caso, infatti, di uno scenario “no action”, nel quale cioè non viene prevista alcuna misura a favore del settore e permane l’attuale incertezza che disincentiva gli investimenti, l’idroelettrico perderebbe 10,4 TWh annui al 2030 rispetto ad uno scenario proattivo.

Generazione idroelettrica storica e scenari no-action, action

Fonte: elaborazione Althesys

In uno scenario “no-action”, la produzione degli impianti a bacino potrebbe perdere fino al 37,1% tra il 2015 e il 2030, quella degli impianti a serbatoio fino al 25,7% mentre quella ad acqua fluente salirebbe dell’8,9% nello stesso periodo. Diversamente, in uno scenario “action”, nel quale si interverrebbe tramite specifiche misure per valorizzare gli investimenti di ammodernamento al termine della concessione, la generazione degli impianti a bacino crescerebbe del 10,2% tra il 2015 e il 2030, quella degli impianti a serbatoio del 2,3% e quella ad acqua fluente del 13%.

Generazione idroelettrica storica e scenari per tipo di impianto

Fonte: elaborazione Althesys

Uno scenario di rinnovamento porterebbe benefici al sistema Italia nel suo complesso, alcuni dei quali sono quantificabili. Innanzitutto contribuirebbe a cogliere i target UE, generando 4,4 TWh di energia rinnovabile al 2030 senza alcun ulteriore impatto ambientale e con una riduzione di 2,1 milioni di tonnellate di CO2 di emissioni al 2030. Porterebbe investimenti fino a 5,5 miliardi di euro, creando ricchezza e occupazione (con 2.100 addetti aggiuntivi). Gli impianti idroelettrici, inoltre, favoriscono una migliore integrazione delle rinnovabili non programmabili nel mercato elettrico erogando servizi di rete, assicurando flessibilità, rapidità di risposta alle rampe e migliorando quindi la sicurezza del sistema. Un ruolo fondamentale è assicurato poi dalla loro capacità di accumulo: fino a 12 TWh/anno da pompaggi.

Vi sono, inoltre, altre ricadute positive, difficilmente stimabili, ma molto rilevanti, in particolare sotto il profilo ambientale. L’idroelettrico può, infatti, contribuire a ridurre gli effetti della siccità, a contenere il rischio idrogeologico e a stabilizzare le falde.

Oggi il settore idroelettrico italiano è però frenato da molteplici criticità. Innanzitutto, l’incertezza del quadro normativo penalizza gravemente il nostro Paese, che ha la durata più breve delle concessioni ed è il più aperto alla concorrenza in Europa. La sostenibilità economica degli impianti è inoltre gravata da canoni di concessione, il cui andamento (crescente) diverge da quello (calante) dei ricavi e che hanno una marcata disomogeneità tra Regioni. Pesa, poi, un’applicazione troppo rigorosa dei vincoli ambientali, con il deflusso ecologico che può causare tra il 30 e il 70% di perdita di produzione, che si somma a quella dovuta agli effetti dei cambiamenti climatici.

Come fare quindi perché l’idroelettrico sia un’opportunità e non un rischio per i target 2030?

Serve una strategia di ampio respiro, che preveda un quadro normativo chiaro e stabile che assicuri reciprocità tra i Paesi europei nel regolare le concessioni. Queste, peraltro, devono avere una durata coerente con gli investimenti da realizzare. Il loro rinnovo, qualunque sia lo strumento, deve basarsi su una strategia che crei valore per il nostro Paese. Da un lato, considerare gli aspetti industriali, garantendo la continuità del servizio, dell’occupazione e la tutela degli investimenti; dall’altro valorizzare le ricadute ambientali e di sistema che un’ottimale gestione del patrimonio idroelettrico può portare. È necessaria, ad esempio, un’applicazione della normativa sul deflusso ecologico sinergica con gli obiettivi energetico-ambientali e basata su evidenze sperimentali sito-specifiche e omogenea tra le Regioni. In quest’ottica, dati anche gli ambiziosi target per le rinnovabili al 2030, pare opportuno riattivare gli impianti a pompaggio, con la creazione di un mercato degli accumuli e un congruo riconoscimento alla fornitura di servizi ancillari.

La SEN 2017, pur riconoscendo il ruolo strategico dell’idroelettrico (e i pompaggi) per i servizi di flessibilità e continuità di esercizio, necessari per l’adeguatezza del sistema, manca di ambizione (50 TWh di generazione al 2030) e non individua misure concrete.

Peraltro, la bozza di decreto del MiSE del 9 marzo 2018, in corso di revisione, sembrerebbe privilegiare gli impianti di piccola taglia (<1 MW). Per questi sarebbero previste tariffe tramite registri mentre quelli di potenza superiore accederebbero ad aste al ribasso. Le dimensioni dei contingenti, sia per i nuovi impianti che per il rinnovamento di quelli esistenti, paiono poi molto limitate. Le diverse complessità che condizionano il grosso del nostro patrimonio idroelettrico, in primis la vexata quaestio delle concessioni pare, invece, ancora lontato dall’essere affrontata in modo organico.

Serve, dunque, un deciso cambio di passo per evitare il rischio di perdere una parte fondamentale del patrimonio impiantistico che è indipensabile non solo per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030, ma anche per la competitività dell’Italia e la sicurezza del suo sistema elettrico.

Alessandro Marangoni è direttore scientifico di IREX Monitor e CEO di Althesys Strategic Consultants