Si è sempre detto e scritto che quello delle rinnovabili sarebbe un progressivo percorso di avvicinamento al mercato, soprattutto inteso nella sua accezione di “mercato elettrico”.

Questa lunghissima rincorsa tra rinnovabili e mercato, durata più 20 anni (dai primi CIP6 alle ultime aste) sembra finalmente giunta al termine. Non sarà infatti sfuggito a chi legga la stampa di settore o frequenti convegni e simposi che il dibattito sulle rinnovabili è ormai pressoché monopolizzato dal tema della “piena integrazione delle rinnovabili con il mercato”, generalmente declinata in due modelli alternativi: la “market parity” e i PPA.

La market parity

Il modello market parity consiste nell’accettare, come unica forma di remunerazione di un nuovo impianto, i prezzi del mercato elettrico: in buona sostanza, l’investimento viene realizzato accettando completamente la volatilità espressa dal mercato (non altera la sostanza la circostanza che si possano cercare forme di contrattualizzazione del prezzo dell’energia di breve termine -  2 o 5 anni). Si tratterebbe quindi, secondo l’interpretazione prevalente, del coronamento del sogno dell’integrazione con il mercato elettrico.

Grazie alla riduzione del costo delle tecnologie, secondo molti operatori sarebbe in effetti sufficiente una remunerazione media (su tutta la vita utile dell’impianto – 25 anni?) appena superiore rispetto all’attuale prezzo di mercato (tra 50 e 60 €/MWh?) per consentire all’investitore di ottenere il rendimento (minimo) ricercato. Un modello quindi che potrà essere avallato solo da chi è convinto che i prezzi elettrici nei prossimi anni cresceranno (magari anche di poco) e, dunque, assegna una probabilità maggiore al verificarsi di elementi rialzisti di mercato (come l’aumento del prezzo delle commodities, crescita della domanda elettrica, tensioni geopolitiche, incremento dei prezzi della CO2) rispetto a quelli ribassisti (riduzione della domanda di energia dalla rete anche per effetto dell’aumento dell’auto-consumo, aumento della penetrazione delle rinnovabili).

A chi scrive, tale scommessa pare azzardata: da modellisti, siamo convinti che vi siano buone ragioni per credere sia che il prezzo salirà (in particolar modo grazie al valore della CO2) sia che scenderà (per la fortissima crescita delle rinnovabili che ci attende). Non essendoci elementi per sciogliere da subito questo dubbio, è evidente che l’investimento verrebbe realizzato in uno scenario di massima incertezza, senza peraltro essere controbilanciato dagli elevati rendimenti che, secondo nozioni basilari di finanza, devono caratterizzare gli investimenti ad elevato livello di rischio. Soprattutto, la scommessa potrebbe sembrare azzardata agli istituti di credito, che difficilmente ne consentiranno il finanziamento (a meno che non vengano presentate ingenti garanzie collaterali).

Qualcuno potrebbe obiettare che l’assunzione di rischio sui prezzi di mercato è elemento essenziale dell’attività di impresa in ambito energetico: gli stessi impianti termoelettrici – si dirà – hanno da sempre accettato la volatilità dei prezzi senza alcuna pretesa di stabilità di remunerazione.

Tuttavia, impianti convenzionali e rinnovabili hanno una struttura di costi completamente differente: molto sbilanciata sui costi di esercizio per gli uni (soprattutto l’acquisto del combustibile), quasi tutta concentrata sul costo di investimento per gli altri (non essendovi alcun combustibile da pagare).

L’attuale design del mercato elettrico è stato modellato sulla struttura dei costi dei primi, elemento che tuttavia non ha impedito errori di lettura dello scenario nella scelta di investimenti di nuova capacità convenzionale o non ha evitato di discutere la necessità di creare nuovi segmenti di mercato (es. capacity market).

Un investimento capital intensive come quello in rinnovabili chiama invece stabilità di remunerazione: come a dire, meglio un rendimento basso ma certo piuttosto che uno potenzialmente elevato ma estremamente incerto.

In ragione dunque di una struttura di mercato modellata su logiche diverse da quelle che guidano l’investimento in rinnovabili, il modello market parity – che pur vedrà (in qualche misura già vede) qualche esemplare - non ci pare una risposta convincente al percorso di decarbonizzazione che si è deciso di intraprendere, mancando dell’elemento centrale che è la stabilità della revenues.

I Corporate PPA

Ecco perché nel dibattito ha fatto capolino il tema dei Corporate PPA: contratti di lungo termine siglati tra un produttore di energia rinnovabile e un consumatore (o un trader per sua vece) che consentono, per l’appunto, di stabilizzare la remunerazione dell’impianto (per chi vende) e di assicurarsi contro futuri aumenti del prezzo energia (per chi compra). Purtroppo, nonostante i proclami, di veri PPA ad oggi in Italia non se ne sono ancora visti: basti dire che la durata massima dei contratti finora siglati ha raggiunto i 5 anni, quando invece per raggiungere un sufficiente grado di stabilizzazione dei rendimenti ne servirebbero almeno 15.

I passi fatti fino ad oggi sono comunque incoraggianti e un mercato dei PPA emergerà senza dubbio. Sbagliato però illudersi che basti questo per triplicare la produzione fotovoltaica e raddoppiare quella eolica entro il 2030, come chiesto dalla SEN e, indirettamente, dalla UE.

Infatti, i potenziali clienti per i PPA non abbondano, dovendo concentrare in un’unica entità un elevato livello di consumi, un certo grado di attenzione alle tematiche ambientali (magari legato all’elevata esposizione sul mercato) e una visione di lungo termine sui prezzi: rara avis.

Il nuovo Decreto – ovvero i PPA di Stato

Se la market parity sarà una bolla di sapone e se i PPA Corporate saranno pochi, come si arriverà a 180 TWh (+75%) di produzione al 2030?

La strada dei PPA resta la più promettente, ma serve, probabilmente, allargare l’orizzonte delle possibili controparti includendo tra queste lo Stato.

Lo Stato, infatti, mediante aste competitive, potrebbe “acquistare virtualmente” a un prezzo fisso per un periodo sufficientemente lungo (20 anni) l’energia prodotta dai nuovi impianti rinnovabili (o da impianti rinnovabili “rinnovati”). La stabilità della remunerazione (pari al prezzo offerto in asta) e la solidità dell’acquirente (lo Stato) sarebbe certa, garantendo così la finanziabilità delle iniziative; l’efficienza di costo del meccanismo sarebbe stimolata dalla competizione in asta tra gli impianti (e le fonti?), che porterebbe a selezionare le iniziative che chiedono il prezzo più basso; il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione da una sapiente gestione dei contingenti delle aste da parte dello Stato.

Si tratta di fantascienza?

No: al contrario si tratta esattamente delle disposizioni contenute nella bozza del nuovo DM rinnovabili, in attesa di approvazione. Il DM, infatti, sostituisce per la prima volta in Italia il concetto di incentivazione in senso stretto (un’integrazione dei ricavi che porta certamente ad una remunerazione maggiore rispetto a quella di mercato) con quello di PPA di stato: una remunerazione fissa, ad un prezzo ottenuto in esito ad un’asta, che nel corso degli anni potrebbe essere inferiore rispetto a quella di mercato. Per il produttore, il possibile rimpianto di aver fissato il prezzo ad un valore più basso rispetto a quello che il mercato potrebbe avere in futuro, sarà lenito dall’aver avuto la possibilità di realizzare e finanziare il progetto grazie alla certezza della remunerazione ottenuta (in aggiunta, sono previsti meccanismi di switch al mercato con delle penalità). Per lo Stato, in caso di prezzi energia futuri più elevati dei valori emersi dalle aste, si sarà trattato di un buon affare – in caso contrario, di un costo di sostegno, comunque limitato (difficilmente superiore ai 200 milioni anno – incremento inferiore al 5% dei costi complessivi di incentivazione), per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione.

Certo, rinnovabili e mercato si sfiorerebbero soltanto: ma siamo certi che sia il mercato elettrico – almeno per come lo conosciamo – la destinazione finale delle rinnovabili?