L’incentivazione delle rinnovabili in Italia incominciò col passo sbagliato. La legge 9 del 1991 tolse il limite di 3 MW posto dalla legge 308/82 alla libera produzione elettrica con fonti rinnovabili e obbligò Enel ad acquistare tale energia a prezzi incentivanti. Estese però questi benefici anche alle fonti “assimilate” (cogenerazione, utilizzo di calore da processi industriali, gassificazione del tar delle raffinerie).
Per di più, il provvedimento CIP 6/92, attuativo della legge 9, rese più conveniente investire in impianti assimilati, fissando un valore minimo dell’indice della loro efficienza, inferiore ai rendimenti già allora conseguiti dai cicli combinati: di conseguenza, l’energia incentivata, proveniente da fonti rinnovabili, è rimasta sempre sotto il 20%.
Nei secondi anni ’90 si ha un timido tentativo – date le risorse finanziarie rese disponibili – di incentivare i “tetti fotovoltaici”, a imitazione di quanto, con discreto successo, era stato realizzato in Giappone. I risultati furono modesti, anche perché il finanziamento a investimenti, senza adeguati riscontri sulla loro producibilità energetica, favorì realizzazioni inefficienti.
La prima misura organica di incentivazione delle rinnovabili è contenuta nel Decreto Bersani, che introdusse l’obbligo di immettere in rete una percentuale di energia rinnovabile, nel 2002 pari al 2%; ma incrementabile negli anni successivi, in modo da rispettare gli impegni del protocollo di Kyoto. L’obbligo poteva essere adempiuto anche mediante acquisto delle relative quote da terzi, dando vita al mercato dei Certificati Verdi (CV). I limiti del provvedimento erano evidenti ancora prima che diventasse operativo.
I CV erano tecnologicamente neutrali, per cui resero tendenzialmente rimunerativi gli investimenti in impianti eolici, geotermici, mini-idro (per gli ultimi due soprattutto nel caso di rifacimenti) e, con limitazioni talvolta notevoli, in quelli alimentati da biomasse, mentre il fotovoltaico (FV) ne era di fatto escluso. Inoltre, dopo una fase iniziale con scarsità di offerta, che fece salire il prezzo dei CV, si passò rapidamente a un eccesso di offerta di CV, che continuò ad aumentare, nonostante il graduale incremento della quota d’obbligo fino a valori intorno al 7%. Invece di risolvere il problema alla radice, la vigenza dei CV fu prima portata a dodici anni, poi a quindici e, per gli impianti di potenza superiore a 1 MW, i valori dei CV furono diversificati mediante appositi coefficienti moltiplicativi, di valore differente a seconda della tecnologia utilizzata, mentre per quelli inferiori a 1 MW (200 kW per gli eolici) in alternativa ai CV si poteva optare per tariffe onnicomprensive, differenziate per tecnologia, corrispondenti alle feed-in tariff tedesche. Con queste e altre misure, su cui per brevità si sorvola, alla fine dei CV rimase soltanto il nome, non la sostanza.
Pur essendo evidente che i CV non fossero in grado di promuovere il FV, si è atteso fino al 2005 per approvare il Primo “conto energia”, che stabilì tariffe di durata ventennale, differenziate per classe di potenza.
Il Primo conto energia conteneva norme che favorirono manovre speculative, per cui nel 2007 fu sostituito con il Secondo, che, tra l’altro, disciplinava la riduzione annuale progressiva delle tariffe fino al 2010, anno della sua scadenza. Mentre la normativa tedesca prevedeva che, automaticamente, le tariffe diminuissero una volta raggiunta una data potenza installata (e ciò nonostante non riuscì a ridurle con la rapidità richiesta dal drastico calo dei costi del FV), il ribasso italiano, prefissato in modo rigido, dopo il primo anno garantì incentivi molto premianti. Situazione peggiorata da un emendamento al decreto “salva Alcoa”, che prorogò l’accesso alle tariffe del Secondo conto energia a tutti gli impianti la cui costruzione fosse conclusa entro il 31 dicembre 2010 e che fossero entrati in esercizio entro il 30 giugno 2011. Una regalia ingiustificata, che fece crescere a dismisura il costo degli incentivi al FV, provocandone la rapida fine (6 giugno 2013).
Il D.M. 6 luglio 2012 riformulò i criteri di incentivazione delle rinnovabili elettriche non FV. A partire dal 2013 gli impianti di piccola potenza furono incentivati con tariffe onnicomprensive. Per gli altri l’incentivo, pari alla differenza tra una tariffa di riferimento e il prezzo zonale orario dell’energia, fu assegnato mediante aste al ribasso, con contingenti prefissati per ogni tecnologia. Venne inoltre introdotto un tetto per gli incentivi pari a 5,8 miliardi di euro, che ha fortemente ridotto la crescita delle rinnovabili. Ulteriori limitazioni sono derivate dal ritardo (23 giugno 2016), con cui è uscito il successivo decreto, che doveva definire le nuove incentivazioni a partire da gennaio 2015, mentre le norme per il 2017 – 2020, ripartite in due decreti, non sono ancora operative.
Il decreto per le tecnologie mature (eolica, geotermica, idroelettrica, più il FV, che è stato reintrodotto), è attualmente fermo in attesa del parere di ARERA, preliminare all’invio al Comitato Stato-Regioni, dopo di che, con le eventuali modifiche, dovrà essere sottoposto alla valutazione della Commissione europea. Oltre al grave ritardo accumulato, la bozza di decreto ripropone aste (e registri per i piccoli impianti) non differenziati per tecnologia, con ricadute negative non dissimili da quelle provocate dai CV.
Del secondo decreto, relativo alle altre tecnologie (biogas, biomasse, geotermia innovativa, solare termodinamico), non è stata ancora emessa nemmeno la bozza.
Questa non sempre commendevole vicenda mette in evidenza che un affidabile sistema di incentivazione, come l’esperienza tedesca conferma, deve basarsi su tariffe articolate per tecnologie, con meccanismi automatici per determinarne la riduzione, ma soprattutto deve essere stabile nel tempo. Meglio ancora, sarebbe internalizzare i costi ambientali delle produzioni con combustibili fossili, adottando un meccanismo di carbon pricing.
Poiché il grande FV ha già raggiunto la market parity (prezzo competitivo sul mercato elettrico) e l’eolico vi arriverà in pochi anni, mentre al piccolo FV basta la grid parity (prezzo competitivo rispetto all’energia proveniente dalla rete), queste tecnologie, secondo la SEN destinate a coprire quasi per intero l’offerta aggiuntiva di produzione elettrica al 2030 con rinnovabili, andranno viceversa promosse con strumenti in grado di stimolare gli investimenti richiesti (poco meno di 50 miliardi di qui al 2030). Per le grandi taglie, a livello internazionale stanno prendendo piede i Power purchase agreement (PPA) che, in una realtà dominata dalle PMI, per affermarsi richiedono stimoli all’aggregazione della domanda e, nella fase di decollo, modalità di accompagnamento auspicabilmente di mercato. Per le piccole taglie, basta attuare le indicazioni della SEN: detrazioni fiscali per i piccoli impianti asserviti agli edifici domestici, superammortamento per imprese e professionisti, priorità di dispacciamento, scambio sul posto e il massimo possibile di esenzione dal pagamento degli oneri di sistema.