Come era prevedibile, è bastato che Regione Lazio e Acea trovassero un accordo perché l’“emergenza idrica” dell’estate 2017 transitasse dalle prime pagine alla cronaca locale. Ancora qualche giorno di Purgatorio nelle pagine interne, poi finalmente potremo tornare a disinteressarci dell’acqua, come d’abitudine.

È il destino delle catastrofi all’Italiana: un ciclo prevedibile fin nei dettagli, che inizia con un lungo sonno, in cui nessuno fa niente, salvo poche cassandre che segnalano a chi di dovere la necessità di intervenire in modo duraturo e sostenibile, facendo manutenzioni e investimenti, accolte da alzate di spalle, sguardi impotenti, rinvii al domani di quel che si potrebbe fare oggi. Poi un bel giorno arriva un evento, magari in sé e per sé non particolarmente eccezionale, che però trovando un sistema impreparato a riceverlo produce il massimo dei potenziali danni. Un’ondata emotiva attraversa allora il Paese: notizie strillate in apertura dei TG, talk show martellanti dove gli stessi esperti verranno invitati a ripetere le stesse cose. Parte la “caccia al responsabile”, in un continuo accusarsi a vicenda di essere lo sprecone che, con i suoi comportamenti egoisti e dissipativi asseta il resto del pianeta.

Poi in qualche modo le cose si aggiusteranno: il buon Dio manderà la pioggia, la campagna acquisti della Roma e le amichevoli estive dell’Inter torneranno ad occupare le menti, in attesa che ricominci il campionato, poi la scuola. E il chiasso, finalmente, finirà. Non per iniziare un discorso pubblico meno ansiogeno, però: ma per ripiombare nel silenzio.

A futura memoria, prima che ciò accada, non saranno inutili alcune considerazioni.

Non serve vivere in un paese arido per essere vulnerabili alla siccità. Al contrario, più un paese è ricco di acqua, più è incoraggiato ad usarne con larghezza; più si abitua a usarne con larghezza, più si troverà in difficoltà quando dovesse essercene un po’ meno del solito. È una legge universale, chissà perché la dimentichiamo così spesso. Si è vulnerabili quando si è abituati a scialare, non quando si è poveri. Se ho la corda, mi arrampicherò su una parete più difficile. Se c’è l’argine, costruirò più vicino al fiume. Se ho l’airbag, correrò più veloce. Se l’interesse è basso e il valore della mia casa è alto, mi indebiterò con meno pensieri. È questo che ci è capitato quest’estate. Anno secco, certo (è piovuto dal 50 al 70% in meno della media, per non dire di quanto ha scarseggiato la neve sulle Alpi). Ma nonostante questo, il sistema non sarebbe andato in crisi se non ci fosse, dall’altro lato, una domanda per la quale la disponibilità garantita di acqua è sempre più irrinunciabile.

Vale per gli usi urbani, dove, non dimentichiamolo, fino a tempi non troppo lontani fa la garanzia di fornitura 365/7/24 era prerogativa delle aree urbanizzate. Per dire, il sistema idrico romano è stato progettato per la sola città di Roma, e fosse solo per quella basterebbe e avanzerebbe. Nel tempo tuttavia tutto il territorio limitrofo si è agganciato alle stesse reti: vuoi perché le falde locali non bastavano, vuoi perché erano inquinate. Un progresso, certamente: ma i progressi costano.

Vale per gli usi agricoli: la nostra è un’agricoltura sempre più specializzata in colture ad alto valore aggiunto, con elevati investimenti, spesso legata ai prodotti che sono l’orgoglio dell’agroalimentare made in Italy. Colture che quindi necessitano di una produzione prevedibile e stabile, e quindi sono sempre più dipendenti dall’irrigazione.

Vale per gli ecosistemi: in passato nessuno era particolarmente colpito se nel lago di Bracciano i pesci morivano asfissiati: morto un pesce se ne fa un altro. Oggi siamo – giustamente – più attenti al mantenimento delle “funzioni ecologiche” e al valore dei “servizi ecosistemici”, e se non lo fossimo noi, ci penserebbe l’UE a ricordarcelo (la Direttiva Quadro Acque, 2000/60, impone il mantenimento del “buono stato ecologico” come prioritario rispetto alle esigenze antropiche).

Ogni domanda di acqua è in sé e per sé legittima, ognuna ha le sue buone ragioni. Perfino i vituperati campi da golf e l’innevamento artificiale, dai quali dipende anche la fortuna delle nostre località turistiche.

Tuttavia, quando l’acqua non è sufficiente a soddisfare tutte le domande, a qualcosa toccherà rinunciare. Non si tratta di decidere chi è più e chi è meno “sprecone” (anche perché se dovessimo farlo veramente potremmo scoprire, contro l’intuizione comune, che “irrigar los turistas vale mas qué irrigar los campos”, come chiosava un collega spagnolo a proposito del conflitto tra campi di golf e campi di mais). Ma va trovata una qualche priorità: decidere chi si deve sacrificare per gli altri.

Ci sono, fondamentalmente, quattro possibili tipi di risposta.

Il primo è quello di potenziare l’offerta, ossia fare di più con più acqua, attingendo da nuove fonti: nuove dighe, nuove captazioni, acquedotti che vanno più lontano, dissalatori.

Il secondo è quello di intervenire sul sistema di gestione, ossia fare meglio con l’acqua che c’è: rifare le tubature perché perdano di meno, riciclare e riutilizzare le acque di scarico, favorire l’infiltrazione di acqua nel sottosuolo, anche in modo forzoso; interconnessione tra sistemi per poter sopperire alle carenze degli uni con le eccedenze degli altri.

Il terzo è quello di ottimizzare il sistema degli usi, ossia fare di più con meno: elettrodomestici e sciacquoni, tecniche irrigue che usano meno “risorsa grezza” concentrandone l’impiego; sistemi domestici di riciclo (es. lo scarico del lavandino per lo sciacquone), sistemi industriali di raffreddamento a ciclo chiuso, irrigazione del giardino comandata da sensori intelligenti; cisterne alimentate da acqua piovana.

Il quarto, infine, è quello di sacrificare qualche uso, se possibile decidendo quali usi sono prioritari e quali lo sono di meno, concentrando lo sforzo sulla riduzione del danno e sulla condivisione dei costi.

Nel breve periodo, durante l’emergenza, non ci sono però molte alternative: l’acqua deve essere razionata, senza nemmeno la possibilità di andare troppo per il sottile nel decidere a chi sì e a chi no. “Ndo cojo, cojo” dicono a Roma; “tagli lineari”, li chiamano gli economisti. Un modo forzoso, certamente inefficiente, ma spesso l’unico possibile.

Abbiamo calcolato, nel caso della siccità 2003 nel bacino del Po, che il costo sociale (da noi stimato in circa 1,5 miliardi di euro) avrebbe potuto essere fino a 7 volte inferiore, se solo ci fosse stato il modo di razionare l’acqua in modo selettivo, concentrandola sulle colture a maggior valore aggiunto, e non togliendola al primo malcapitato.

Fare meglio si può, quindi: ma richiede investimenti. Investimenti materiali, per creare nuove captazioni, per sistemare le reti, per usare l’acqua in modo efficiente, per operare i distacchi in modo selettivo in base alle priorità. Ma anche investimenti sociali e istituzionali. Per razionare l’acqua in modo intelligente (togliendola temporaneamente agli usi socialmente meno meritevoli, e garantendola agli altri) occorre un sistema decisionale in grado di stabilire le priorità, un sistema di condivisione dei costi e di compensazione di chi si sacrifica, un sistema di monitoraggio.

Tutto questo non si improvvisa, ma si costruisce nel lungo periodo, dedicandoci sforzi quotidiani e silenziosi, accettando l’inevitabile prezzo in termini economici (sotto forma di tariffe, tasse di scopo, fiscalità generale, ma anche di investimenti domestici). E quindi, deve essere anche sorretto da un calcolo economico dei costi e dei benefici.

Se le calamità naturali capitano abbastanza raramente, può convenire anche non fare nulla, aspettando serenamente l’eventuale annata di vacche magre, e dotandosi di ammortizzatori economici (le assicurazioni esistono per questo). Ergo, misurare la variabilità statistica degli andamenti climatici diventa basilare per programmare in modo efficiente.

Chi si intende di cambiamento climatico pronostica una frequenza sempre maggiore di situazioni come quella che stiamo vivendo, e quindi un’alterazione permanente del ciclo dell’acqua. Sarà probabilmente vero, anche se le statistiche Istat dell’ultimo decennio non danno evidenza in tal senso, almeno misurando i deflussi annuali. A preoccupare l’Italia nel medio-lungo termine dovrebbe essere semmai la tendenza che riguarda le precipitazioni nevose sulle Alpi, essendo il deflusso primaverile ed estivo alimentato principalmente dallo scioglimento della neve. Meno neve e più pioggia significa quindi, a parità di precipitazioni totali, maggiori deflussi nei periodi sbagliati (quando l’acqua serve meno).

L’Italia resta un paese fortunato, grazie al clima temperato e alle sue montagne. Ma è bene iniziare a non fare affidamento solo sullo Stellone. I tempi sono maturi per avviare una “strategia nazionale per l’acqua” – come fatto per energia e altri settori. Senza panico, ma anche senza inerzie e indugi.