La trentesima Conferenza delle Parti sul Clima, COP30, è attualmente in corso in Brasile, e nonostante il contesto frenetico è impossibile non notare un’assenza significativa: Trump, Xi Jinping e Modi non partecipano ai negoziati. Eppure, i Paesi da loro guidati restano i tre principali emettitori mondiali: 29,2% la Cina, 11,1% gli Stati Uniti e 8,2% l’India, costituendo insieme quasi la metà delle emissioni globali. Tale assenza apparente nasconde però profonde differenze nei percorsi politici interni, nelle strategie comunicative e nelle percezioni della popolazione di ciascun Paese. In un’epoca di crescente urgenza climatica, crisi geopolitiche e narrative negazioniste amplificate dai media, il vuoto di leadership a COP30 è particolarmente significativo, e spinge a domandarsi: fino a che punto questi fattori mettono a rischio la percezione e l’azione collettiva nella lotta al cambiamento climatico?

Gli Stati Uniti, la cui assenza alla conferenza non è solo presidenziale ma assoluta, senza alcun inviato ufficiale ai negoziati, hanno preso una posizione chiara, adottando la narrativa negazionista portata avanti non solo da Trump, ma da una fetta considerevole del potere politico. Tale aspetto si riflette nella scelta, duplice, di uscire dagli accordi di Parigi, nei tagli significativi alle politiche ambientali e nei crescenti investimenti nell’industria fossile, ma anche, e soprattutto, nel governo. All’interno del Congresso sono infatti 123 i funzionari eletti che negano il cambiamento climatico, pari al 23% dei membri totali. Questi ultimi esercitano una significativa influenza sulle percezioni pubbliche, nonché sulla velocità e direzione delle politiche climatiche negli Stati Uniti, ed è pertanto necessario evidenziare come abbiano ricevuto complessivamente oltre 52 milioni di dollari in contributi elettorali provenienti dall'industria dei combustibili fossili.

Questi numeri non rappresentano tuttavia in modo proporzionale l’opinione pubblica, dove le percentuali stimate di negazionismo restano contenute, con oltre metà della popolazione che si ritiene “allarmata” o “preoccupata” rispetto al fenomeno in questione, mentre l’11% si direbbe negazionista.

Le sei categorie di percezione del riscaldamento globale negli Stati Uniti (autunno 2023): allarmati, preoccupati, cauti, disinteressati, dubbiosi, e scettici/negazionisti

Fonte: Yale Program on Climate Change Communication; George Mason University Center for Climate Change Communication 

Un altro elemento cruciale è lo scenario mediatico e informativo americano. Con un Presidente negazionista affiancato durante la sua rielezione dai CEO delle compagnie tech e social più potenti al mondo, si comprende il rischio al quale gli utenti sono esposti, non solo negli Stati Uniti ma da ovunque vi accedano. Recentemente è infatti possibile notare il passaggio da un negazionismo “tradizionale”, basato sull’idea che il cambiamento climatico non abbia nulla a che vedere con l’intervento umano, ad una nuova forma del fenomeno, molto più articolata e insidiosa, il cui obiettivo è diffondere informazioni false e fuorvianti, convincere le persone che questa sia l’opinione collettiva, che la scienza non sia affidabile e che “il cambiamento climatico abbia anche lati positivi”. Questa dinamica è stata al centro dell’intervento del Presidente brasiliano Lula all’apertura di COP30, che ha affermato: “Controllano gli algoritmi, seminano odio, diffondono paura, attaccano le istituzioni, la scienza e le università. È il momento di infliggere una nuova sconfitta ai negazionisti”.

Diversa è la situazione per India e Cina, i giganti in via di sviluppo che, nonostante l’assenza dei loro leader, partecipano comunque a COP30, senza passare inosservati. La Cina, ormai da tempo in competizione con gli Stati Uniti come potenza economica mondiale, può di fronte ad un presidente americano negazionista affermarsi come potenza “green”. Il Paese, che si presenta a COP30 guidato dal Vicepremier Ding Xuexiang, punta in particolar modo proprio sullo sviluppo delle rinnovabili, strategia che garantisce a Pechino vantaggi economici e diplomazia climatica: la Cina non solo riduce le proprie emissioni, ma esporta tecnologie pulite a condizioni vantaggiose verso numerosi Paesi emergenti, tra cui India e Brasile, assumendo un ruolo centrale nei negoziati e consolidando la sua influenza nei mercati internazionali dell’energia sostenibile.

Tuttavia, quando si parla di Cina, è fondamentale tenere conto del forte controllo esercitato dal governo sui mezzi di comunicazione, che consente di orientare le percezioni pubbliche. Nonostante ciò, secondo un report della European Investment Bank, il 73% della popolazione cinese ritiene che il cambiamento climatico sia una delle più grandi sfide da affrontare. Questo dato esclude l'ipotesi che il potere politico stia promuovendo una narrativa negazionista: la strategia climatica cinese, pur funzionale agli interessi economici e geopolitici del Paese, poggia su una base di consenso interno e di consapevolezza diffusa sui rischi del riscaldamento globale.

Sondaggio EIB 2022: la percentuale di cittadini che percepisce il cambiamento climatico come una minaccia rilevante varia significativamente tra regioni — dal 39% negli USA al 73% in Cina, con l'UE al 47%

Fonte: BVA per l’European Investment Bank

L’India, uno dei Paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, adotta alla conferenza una strategia moderata, enfatizzando l'importanza della finanza climatica e sottolineando le disparità tra economie sviluppate ed emergenti. L’assenza a COP30 del Presidente Modi, attualmente impegnato nelle elezioni nel Bihar, lo Stato più giovane e povero al confine con il Nepal, è colmata dall’ambasciatore indiano in Brasile. Tale partecipazione denota un rinnovato interesse e impegno verso i negoziati climatici, confermato anche dall’attuazione di politiche di efficienza energetica, energie rinnovabili e adattamento agli eventi estremi.

I dati sull'opinione pubblica rivelano una popolazione consapevole e preoccupata: dalla siccità alle inondazioni, dal calore estremo alle alluvioni, i cittadini indiani mostrano una percezione concreta del rischio climatico. Ancora più significativo è il dato sulla diretta esposizione ai danni: il 78% della popolazione dichiara di aver sperimentato personalmente gli effetti del cambiamento climatico, un tasso ben più elevato rispetto al 44% negli Stati Uniti, riflettendo le disuguaglianze geografiche e socioeconomiche nella vulnerabilità climatica globale.

Esperienza diretta degli effetti del riscaldamento globale: il 44% negli USA contro il 78% in India

Fonte: Yale program on Climate Change Communication; UC Santa Barbara, Utah State University, Team CVoter

Nonostante la diffusione crescente di contenuti mediatici e narrative negazioniste, la maggior parte delle persone in Cina, India e Stati Uniti, ma non solo, percepisce il cambiamento climatico come una sfida concreta e urgente.  È allora cruciale investire in comunicazione e educazione affinché questa consapevolezza diffusa non venga erosa dai pochi in posizioni privilegiate che, peraltro, non dovranno affrontare le conseguenze materiali dell'inazione. L’assenza di leader come Trump, Xi Jinping e Modi a COP30 non costituisce di per sé motivo di allarme immediato. Preoccupante è piuttosto la visione politica sottesa a tali scelte, in particolare nel caso degli Stati Uniti, e il rischio che influenzi non solo l'opinione pubblica attraverso disinformazione mediatica, ma anche il grado d'impegno globale nella transizione climatica. Tuttavia, è necessario guardare oltre le apparenze: così come l’assenza di alcuni leader non implica automaticamente un disinteresse generale per i negoziati climatici, allo stesso modo la narrazione mediatica o politica non rappresenta l’esperienza e l’opinione delle persone che, nella vita di tutti i giorni, sono preoccupate o colpite dal cambiamento climatico. Tra il vuoto ai vertici e la pressione dal basso, rimane dunque uno spazio reale di trasformazione.

Elisa Avoledo è tirocinante di ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali e studentessa di diritto ambientale e sviluppo sostenibile presso l’Università degli Studi di Milano.