Il 2024 è stato un anno relativamente tranquillo per il mercato del petrolio, con il prezzo dei principali greggi di riferimento che si è mosso in un intervallo compreso tra i 70 e i 90 dollari al barile, nonostante la perdurante instabilità geopolitica e la polarizzazione della globalizzazione in regionalismi sempre più definiti e contrapposti. Alla base di questa quiete ci sono fondamentali di mercato ben bilanciati, con la domanda di petrolio che cresce a ritmi meno sostenuti del passato, a causa del rallentamento economico mondiale, e l’offerta di petrolio controllata dagli otto paesi alla guida dell’OpecPlus, Arabia Saudita, Russia, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Kazakistan, Algeria e Oman, attraverso autolimitazioni.

Andamento greggi di riferimento

Fonte: Elaborazioni Staffetta Quotidiana su dati ICE e Nymex 

Secondo le stime contenute nell’ultimo Oil Market report Aie, nel 2024 sono stati prodotti 102,9 milioni di barili giorno di petrolio (mln bbl/g), di cui 49,8 milioni in quota OpecPlus. Quest’anno la produzione mondiale di petrolio salirà a 104,84 mln bbl/g, anche grazie all’aumento dell’output già preventivato dall’OpecPlus, la cui quota salirà dunque a 50,26 milioni.

Dal canto suo, la domanda petrolifera mondiale è stimata aver raggiunto i 102,81 mln bbl/g nel 2024, perfettamente allineata alle stime sull’offerta, e dovrebbe salire dell’1,1% a 103,89 mln bbl/g quest’anno, mentre le scorte industriali aumentano e si assottigliano quelle governative (cosiddette di emergenza).

Eppure, a fronte di questa struttura ben bilanciata, l’anno che è appena iniziato è pieno di incognite per il mercato del petrolio e dei prodotti. La prima riguarda la domanda petrolifera mondiale. Il recente brusco calo delle richieste di petrolio dalla Cina è stato accompagnato dal rallentamento in molte economie emergenti, come Nigeria, Pakistan, Indonesia, Sud Africa e Argentina. A riprova di questo rallentamento, nell’ultimo trimestre del 2024 la crescita non Ocse è stata pari a 320.000 bbl/g su base annuale, toccando il tasso più basso dai tempi della pandemia, mentre la crescita della domanda petrolifera Ocse è stata addirittura inferiore, pari a soli 190.000 bbl/g.

La seconda grande incognita riguarda l’offerta. In particolare, quella che proviene dall’Iran, nei cui confronti l’amministrazione Trump potrebbe decidere di inasprire le sanzioni. In uno dei suoi ultimi rapporti sul settore oil, Goldman Sachs formula uno scenario in cui la produzione petrolifera iraniana potrebbe diminuire di 1 mln bbl/g, il che porterebbe il prezzo del Brent a salire in media a 83 dollari barile. Tuttavia, la quota di importazione del greggio iraniano in Cina è attualmente pari al 90% del totale, quindi l’impatto di un eventuale inasprimento delle sanzioni Usa potrebbe essere minore rispetto al passato.

Diverso sarebbe il caso in cui il blocco delle forniture dall’Iran non derivi dall’inasprimento delle sanzioni, quanto da un maggiore supporto militare da parte degli Usa a Israele. In questo caso, se fossero colpite le infrastrutture petrolifere iraniane come bersagli strategici, l’offerta petrolifera di Teheran pari a circa 2 mln bbl verrebbe bruscamente meno e allora – sempre secondo le stime di Goldman Sachs – il Brent potrebbe anche raggiungere e superare quota 90.

Forse è questa l’ipotesi sottesa alla frase sibillina con cui termina l’editoriale dell’OMR di dicembre, un vero e proprio monito dell’Aie: “gli shock del mercato possono arrivare con poco o alcun preavviso, rendendo il monitoraggio attento sulla sicurezza energetica più importante che mai”.

Un’altra incognita riguarda gli impianti di raffinazione. Infatti, se da una parte è vero che – grazie all’accorta politica dell’OpecPlus e in particolare dell’Arabia Saudita – sul fronte della produzione petrolifera non c’è alcun problema di spare capacity (capacità di riserva), d’altra parte è altrettanto evidente che il mercato dei prodotti petroliferi è abbastanza corto, con il tasso di utilizzo degli impianti che si colloca sulla fascia alta della curva storica. È probabile che gli impianti esistenti continueranno a marciare a ritmo sostenuto, mentre l’entrata in esercizio di capacità addizionale rallenterà o addirittura verrà cancellata in Usa e in Europa, mentre in Cina ci saranno delle razionalizzazioni. Tuttavia, i margini di raffinazione dovrebbero rimanere elevati.

Infine, c’è l’incognita più divisiva, quella che riguarda la penetrazione dell’auto elettrica nei mercati mondiali, da cui per alcuni esperti dipende il raggiungimento del picco della domanda di petrolio. A questo proposito torna pertinente l’analisi della domanda oil cinese, dove oggi le auto elettriche rappresentano circa il 60% delle vendite. Goldman Sachs si aspetta che la diffusione dell’auto elettrica dreni dalla crescita della domanda mondiale di petrolio una quantità compresa tra lo 0,4 allo 0,6%, assumendo che le vendite di auto elettriche aumentino dagli 11 milioni del 2024 ai 17 milioni del 2026. Tuttavia la stessa banca d’investimento nel suo rapporto sottolinea i limiti di queste stime, che vengono disattese anno dopo anno. Quindi, è più probabile che si raggiunga il picco della domanda petrolifera grazie allo “switch” dal petrolio al gas naturale, anziché per il boom delle auto elettriche.

Guardando oltre al 2026, la domanda petrolifera dovrebbe crescere almeno per un’altra decade, principalmente trainata dalle economie emergenti. Mentre nei paesi Ocse il principale ostacolo alla decarbonizzazione del settore petrolifero rimarrà la difficoltà di trovare sostituti per il jet fuel e la petrolchimica. Pertanto, in attesa dell’avvento di una tecnologia “break thought”, in grado di rispondere a tono all’emergenza del cambiamento climatico, sarebbe dunque utile una maggiore attenzione nei confronti degli impianti di raffinazione, che lavorano da molti anni a ritmo sostenuto, sui quali pende troppa incertezza per mettere a terra gli investimenti necessari ad assicurare una maggiore sicurezza energetica per i paesi consumatori.