Lo scorso marzo, al summit dell'Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Ursula von der Leyen ha dichiarato: "La tecnologia nucleare può svolgere un ruolo importante nella transizione energetica", ma ha aggiunto che "la realtà odierna, nella maggior parte dei paesi, è una realtà di lento ma costante declino della quota di mercato" per l'energia da atomo. Questa affermazione riassume bene la discrepanza tra il potenziale del nucleare per la transizione energetica e i dati attuali.
Oggi, l'energia nucleare rappresenta circa il 10% della produzione globale di elettricità, con un'incidenza maggiore nelle economie avanzate (23% in Europa e Nord America) e molto più bassa in Africa e Sud America (rispettivamente 1% e 2%). Nonostante le difficoltà, il nucleare offre tre vantaggi chiave per il sistema: garantisce sicurezza energetica stabilizzando le reti, riduce le emissioni di CO2 e abbassa i costi energetici per aziende e famiglie. Considerando l'importanza dell’elettrificazione per raggiungere gli obiettivi climatici, questi benefici diventeranno sempre più rilevanti. In aggiunta, il nucleare potrebbe svolgere un ruolo importante nella produzione di idrogeno "rosa", un'ulteriore opportunità per la decarbonizzazione.
Tuttavia, il settore nucleare incontra diverse barriere. Le centrali richiedono ingenti investimenti iniziali, lunghi tempi di realizzazione (con record negativi di ritardi e lievitazione dei costi) che rendono i progetti poco appetibili rispetto ad alternative come il gas naturale o le rinnovabili, richiedendo il fermo supporto dello Stato e del regolatore. Infine, l'opposizione pubblica ha portato, in diversi contesti nazionali, alla decisione di abbandonare questa fonte di energia.
A partire dal quadro attuale, che ruolo riveste il nucleare nei principali scenari energetici elaborati dagli esperti? Marginale, se volessimo riassumere la questione in modo sbrigativo. Sembra infatti esservi una sorta di plebiscito tra i principali “outlook”, siano essi a firma di società di consulenza, agenzie o compagnie energetiche: nello scenario base dell’IEA, a livello globale, la domanda elettrica registra un +2% annuo al 2050 e il contributo del nucleare rimane costantemente intorno al 10%. Questo dato, apparentemente piatto, nasconde nei dettagli molte dinamiche interessanti, incluso un crescente interesse per il “rinascimento del nucleare”.
Per mantenere una quota costante in un contesto di crescente domanda di elettricità, anche la generazione nucleare deve aumentare proporzionalmente. Ciò implica l’installazione di nuova capacità, anche per sostituire le centrali in via di dismissione. Inoltre, le diverse regioni del mondo mostrano tendenze differenti: se oggi il 70% della capacità nucleare si concentra nelle economie avanzate, il fulcro dei nuovi progetti si trova in Asia.
Alla COP28 di Dubai, 22 paesi hanno aderito alla Declaration to Triple Nuclear Energy, impegnandosi a promuovere un obiettivo globale di triplicare la capacità di energia nucleare dal 2020 al 2050. Tradotto in numero, significa aggiungere 740 GW alla capacità del 2020. Nel gruppo figurano Stati Uniti (promotori della dichiarazione), Canada, Francia, Ghana, Giappone, Polonia, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito. Grandi assenti Cina, India e Russia, nonostante giochino un ruolo di primo piano nel settore. L’obiettivo appare più che ambizioso: la IEA prevede che, nello scenario Net Zero, la capacità installata raddoppierà al 2050, con un investimento medio di 100 miliardi di dollari all’anno (il triplo rispetto ai livelli recenti). Secondo lo scenario “alto” della AIEA, sarebbe possibile arrivare al massimo a un fattore x2,5. La World Nuclear Association ha calcolato che, considerando gli impianti in costruzione (68 GW), quelli pianificati (109 GW) e proposti (353 GW), si potrebbe raggiungere l'obiettivo della dichiarazione di Dubai richiederebbe ulteriori 210 GW.
La Cina, con 27 GW attualmente in costruzione, guida la classifica dei paesi che puntano su questa forma di energia: ciò è confermato anche dal recente annuncio di volersi rendere sempre più indipendente sul fronte dell’approvvigionamento di uranio, portando a 1/3 del fabbisogno la quota prodotta internamente, a cui sommare un ulteriore 30% proveniente da partecipazioni in attività minerarie in Africa. Il piano cinese prevede di passare dal 5% attuale di generazione da nucleare al 10% nel 2035 e al 18% nel 2060, superando gli Stati Uniti entro il 2030. In totale, il paese intende realizzare 150 nuovi reattori tra il 2020 e il 2035.
Nel dicembre 2023, la Cina ha inaugurato la prima centrale al mondo di quarta generazione, la Shidaowan-1. Secondo l’Agenzia Cinese per l’Energia Nucleare, il 90% della tecnologia impiegata nel nuovo impianto è stato sviluppato internamente. Inoltre, la Cina sta guidando lo sviluppo e la diffusione di reattori modulari (SMR), competitivi sul fronte dei costi, consolidando così ulteriormente la sua leadership nel settore.
Il Giappone, che prima dell’incidente di Fukushima copriva con il nucleare il 30% del fabbisogno elettrico, dopo avere spento tutti i reattori per 4 anni ha avviato un piano di ritorno al nucleare che prevede di risalire al 20% al 2030. Il piano procede a rilento, anche per la difficoltà di aderire alle nuove regole di sicurezza e per la difficile ripartenza di un settore entrato in crisi dopo lo stop del 2011.
Restando in Asia, nel 2022 l’India ha annunciato di voler triplicare la sua capacità nucleare entro il 2032, mentre il Bangladesh ha avviato la costruzione del suo primo reattore, beneficiando del supporto tecnico e finanziario russo. La Russia ha adottato questo modello di collaborazione anche con altri paesi, come Egitto e Turchia.
Pur essendo evidente che i paesi appena citati rappresentano l’epicentro della crescita del nucleare nei prossimi anni, alcune prospettive interessanti emergono anche negli Stati Uniti e in Europa.
Il 20 settembre Microsoft ha annunciato un accordo ventennale per acquistare energia da una centrale nucleare spenta che verrà riattivata. Non si tratta di una centrale qualsiasi, bensì Three Mile Island, luogo del peggior incidente nucleare statunitense: nel 1979 si verificò una fusione parziale di uno dei suoi reattori.
L’accordo mette in evidenza due fatti determinanti per l’evoluzione del mix elettrico negli USA: la necessità di coniugare gli obiettivi climatici con la crescente fame di energia dei data center - alimentata dalla corsa all’intelligenza artificiale e delle criptovalute - e gli interrogativi su come le centrali nucleari chiuse possano essere riavviate in sicurezza (su questo argomento consigliamo un articolo recente di Nature). La riattivazione degli impianti dismessi costituirebbe un modo più rapido e meno costoso per aumentare la capacità elettrica low-carbon: mentre la costruzione di un nuovo impianto potrebbe richiedere più di un decennio, la riapertura sarebbe possibile un anno e mezzo dopo l'inizio del processo di riavvio. Negli Stati Uniti ci sono 22 reattori nucleari in fase di smantellamento, un processo che può richiedere decenni per essere completato, secondo la Nuclear Regulatory Commission.
Venendo all’Unione Europea, il quadro è decisamente variegato, per via della copresenza di realtà nazionali molto differenti. Secondo i dati del 2023, 12 Stati Membri utilizzano 96 GW di capacità installata per coprire il 23% della domanda elettrica. Oltre la metà di questa elettricità nucleare è prodotta in Francia. La Polonia non ha al momento centrali nucleari ma ha pianificato la costruzione di 3 impianti e ci sono 26 progetti in fase di valutazione. Al contrario, la Spagna spegnerà i suoi 5 impianti entro il 2035. Il tema principale in Europa riguarda l’età media dei reattori e gli eventuali piani di estensione della loro operatività, viste le enormi difficoltà incontrate nella costruzione di nuovi impianti. Dei 109 reattori in attività tra UE e Regno Unito, il 90% ha oltre 30 anni e 32 hanno più di 40 anni. In Francia, 41 reattori su 56 hanno ottenuto autorizzazione a proseguire l’attività. Il portavoce di EDF ha dichiarato che gli impianti in questione possono tranquillamente continuare a funzionare oltre 60 anni, rispettando tutti i requisiti di sicurezza. Effettivamente, la questione sembra essere principalmente regolatoria, visto che, per esempio, in Svezia le licenze non hanno scadenza e la compagnia che gestisce i reattori ha dichiarato "Ci sentiamo completamente a nostro agio nel farli funzionare oltre gli 80 anni”.
Infine, il report di Mario Draghi indica il nucleare come cruciale per tutelare la competitività europea e raggiungere gli obiettivi climatici. Tuttavia, individua chiaramente, oltre all’estensione di vita dei reattori esistenti, la necessità di costruire nuovi impianti e di investire su SMR e fusione.
Molti sminuiscono il potenziale ruolo di SMR e fusione, ribadendo che non saranno disponibili in tempo per contribuire agli obiettivi del Net Zero. Tuttavia, ricordiamo che la sfida per il clima non si interrompe al 2050: arrivare tardi sulle innovazioni ha messo in difficoltà l’Europa nel settore automobilistico e in quello delle rinnovabili. È indispensabile non ripetere gli stessi errori. Proprio il report di Draghi cita come prima azione “closing the innovation gap with the United States and China.”
In conclusione, sebbene il nucleare sembri avere un ruolo marginale negli scenari energetici globali, ci sono segnali di rinascita in alcune aree strategiche. Paesi come Cina, India e Russia stanno facendo investimenti significativi, mentre in Europa e negli Stati Uniti prevalgono le iniziative per riattivare e modernizzare le infrastrutture esistenti. La chiave per il futuro sarà garantire il flusso dei finanziamenti necessari e il supporto dei governi. Il nucleare potrebbe non essere una soluzione di breve periodo, ma resta una fonte cruciale per la sicurezza energetica e la decarbonizzazione.
Le opinioni espresse nell’articolo sono personali dell’autore e non possono essere riferite all’azienda per cui lavora.