A concludere l’Assemblea Generali di Assopetroli-Assoenergia del 3 luglio 2024 è il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin che ha toccato alcuni dei temi cardine che ruotano intorno al dibattito della decarbonizzazione e alla sfide ad essa connesse. Quali sono gli scenari di domanda e soprattutto quali saranno le prospettive sul fronte dell’offerta? Ci sarà un futuro per nucleare e biocarburanti? L’Europa in generale, e l’Italia, riusciranno a coniugare la sfida ambientale con la competitività della sua industria. Su RiEnergia riproponiamo il punto di vista del Ministro.

L’umanità è in crescita: i paesi poveri chiedono cibo e quelli in via di sviluppo benessere. Per gli altri paesi è partita la corsa all’Intelligenza Artificiale. Un simile quadro proietta una domanda di energia molto maggiore di quella attuale. Lei crede che le fonti fossili saranno utilizzate di meno su scala globale e che le rinnovabili da sole possano supplire al minor ricorso alle fonti fossili? Crede che l’uso del nucleare sarà maggiore e più diffuso di quello attuale?

È difficile fare una previsione, soprattutto perché siamo in presenza di due forze che agiscono contemporaneamente. Da una parte, la crescita della domanda: solo in Italia, i consumi elettrici al 2050 è stimato che saranno di 700 TWh a fronte degli attuali 306 TWh, ovvero più del doppio.  Dall’altra, sul clima, ci sono importanti decisioni prese da Italia, UE, G7 e COP28 con l’obiettivo di contrastare il cambiamento climatico, ridurre il rischio di perdita di biodiversità e quindi combattere l’inquinamento.

Per questa ragione si sta puntando a una maggiore diffusione delle rinnovabili come geotermico, idroelettrico, fotovoltaico ed eolico. Tuttavia, trattandosi di fonti intermittenti, emergono varie problematiche che rallentano il passaggio dal fossile al rinnovabile. Da qui muove l’opportunità di puntare anche sull’energia nucleare, in merito alla quale prevedo un ampio sviluppo.

L’esperienza mi porta a dire che negli ultimi due anni, a seguito della crisi energetica che ha colpito il mondo, ma soprattutto l’Europa e il Mediterraneo, vi è stata una forte accelerazione sulla sperimentazione, sia sul fronte della fissione che della fusione. Al punto che, per quanto riguarda la fissione, stanno arrivando dai grandi centri di ricerca e dai grandi gruppi che si occupano di nucleare le comunicazioni circa la disponibilità a breve di piccoli moduli nucleari di varie capacità produttive.

Vi sono, ad esempio, quelli a raffreddamento ad acqua, a gas, ma si stanno sperimentando anche quelli con raffreddamento a piombo, che sembrano essere i più sicuri in assoluto. Un’accelerazione è riscontrabile anche in materia di fusione nucleare, con buoni risultati a livello europeo e americano, ma anche russo e cinese.

Passiamo invece alla capacità competitiva del sistema Italia, penalizzato da un costo dell’energia doppio rispetto alla Francia, triplice rispetto alla Spagna e 1/3 maggiore della Germania. Vi sono alcuni paesi che ricorrono al nucleare, mentre altri a risorse rinnovabili e al gas, altri ancora a fonti fossili molto inquinanti come carbone e lignite (vedi Germania e Cina). L’Italia è un importatore di energia, non essendo autonoma né con le FER né con il gas domestico. Quali altri costi dovrà comprimere la nostra industria per competere con l’estero e sopportare un surplus di costo dell’energia? Prevede un ritorno all’energia nucleare per l’Italia? In che tempi e con quali tecnologie?

Non possiamo andare avanti eternamente con un costo dell’energia doppio rispetto a quello dei nostri competitor. Ciò nonostante, tutte le produzioni vengono sostenute dalla fiscalità e dagli oneri di sistema che finiscono in bolletta. È chiaro che il cambiamento di pelle del sistema produttivo – ovvero la crescita dell’energia prodotta con eolico e fotovoltaico, l’adozione di contratti di lungo termine per l’approvvigionamento del gas, la sicurezza che ci fornisce la presenza dei rigassificatori – deve consentirci di far fronte ai nodi del sistema che ancora ci impongono prezzi doppi rispetto agli altri paesi.

In gioco c’è la sopravvivenza del sistema produttivo italiano, di quello sviluppo manifatturiero che ha portato l’Italia al conseguimento di un certo livello di benessere.

Se parliamo di nucleare, benché come Paese lo abbiamo abbandonato 40 anni fa, ci siamo accorti con l’introduzione al MASE della Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile che il livello di conoscenza di questa industria è rimasto altissimo tanto a livello universitario quanto a livello industriale, con molte imprese che hanno commesse miliardarie in tutto il mondo. Sul fronte della fusione nucleare, buona parte degli ingegneri che lavorano in Francia sono italiani.

Quello che manca, però, è un quadro giuridico. Il Parlamento è espresso soltanto sulla possibilità di procedere su ricerca e sperimentazione nel settore nucleare. Il percorso quindi è da costruire. E proprio su questo ho presentato un PNIEC all’UE che offre uno scenario al 2030 senza il nucleare, ma che negli anni successivi prevede l’introduzione del nucleare da fissione, prima attraverso i reattori di piccole dimensioni e poi, nell’ultima fase, dopo il 2045, il nucleare da fusione, ad oggi ancora non esistente.

Parliamo invece di emissioni. A differenza di quello di altri paesi industrializzati, compresi gli USA, in UE il modello socio-economico è abbastanza virtuoso: secondo i dati dell’European Environment Agency, le emissioni di CO2 dell'UE sono in calo dal 1980 e oggi pesano meno del 6% su scala globale. Significa che qualsiasi riduzione avrà un impatto minimo se non irrilevante sul clima, anche considerando che quelle di Cina e India pesano per circa il 40% e sono in aumento. Il Green Deal ha già penalizzato le imprese e i cittadini europei. Ritiene che sia compatibile con la crescita del benessere degli europei?

Il Green Deal nasce dalla consapevolezza di dover intervenire sul fronte climatico per ridurre le emissioni. Tuttavia, io credo che “purtroppo” la scelta regolamentare abbia avuto un eccesso di ideologismo rispetto all’obiettivo da raggiungere. Per questo il Green Deal va perseguito, anche per un paese come l’Italia che pesa appena per lo 0,7% delle emissioni globali, ma deve essere corretto.

È nostro dovere abbassare le emissioni, ma è anche una grande opportunità: deve essere uno stimolo ad avere un’industria più moderna, delle produzioni e un sistema commerciale più moderno. Un incentivo a fare dell’Italia un’eccellenza al mondo, come lo è sempre stata.

Bisognerà, però, rivedere alcune posizioni che non hanno una logica, come la scelta presa tre anni fa di fermare la vendita di motori endotermici al 2035. Scelta che io non posso condividere, perché la politica non può precedere ogni risultanza della ricerca, della tecnologia e della scienza. Sicuramente la diffusione dell’auto elettrica sarà via via maggiore nei prossimi anni, ma questo non deve giustificare la decisione dello stop ai motori tradizionali, se possono essere utilizzati con carburante sintetico o con biocarburante.

Un’ultima domanda. Secondo i dati dell'Europarlamento, i trasporti in Europa sono responsabili del 25% delle emissioni di CO2: quelli su strada il 71%, di cui le auto il 61%. Essendo le emissioni circa 2,8 Gtons (fonte IEA) il calcolo dice che le auto circolanti in Europa emettono lo 0,9% della CO2 globale. Alla luce di questi dati: ritiene che abbia senso forzare l'industria a disinvestire nel motore termico, privandola della principale leva competitiva verso i cinesi? Ritiene, inoltre, che abbia senso continuare a infliggere multe all'industria europea per lo sforamento del limite dei 95 gr/km?

Non ha senso imporre divieti, ma la nuova regolamentazione deve essere uno stimolo, un’opportunità, un motivo di scelta. Io credo che l’industria europea debba essere più avanti delle altre e debba fare in modo di essere migliore anche sotto il fronte delle emissioni. Sono convinto, però, che in ottica di decarbonizzazione, i biocarburanti daranno un contributo enorme.

Per questo temo che la scelta di non includerli nella tassonomia europea non sia stata una scelta scientifica ma ideologica, una scelta di contrapposizione tra paesi.

L’Italia è il più grande produttore di biocarburanti in Europa. L’impegno del Governo in ambito europeo per i biocarburanti è quello di far sì che questi entrino dalla porta principale nella tassonomia europea e mi auguro che la nuova Commissione abbandoni la visione eccessivamente ideologica che l’ha caratterizzata negli ultimi anni e si impegni su regole che guardino al futuro, ma che siano aderenti alla realtà dell’Europa e alle condizioni economiche e sociali dei singoli paesi europei.