Come in ogni campo dell'esperienza umana nel quale qualche anno di applicazione concreta sul campo è alle spalle, è tempo di farsi delle domande e di utilizzare le corrispondenti risposte, unitamente alle evidenze empiriche, per elaborare una nuova visione di futuro. Così è anche per quanto riguarda il percorso compiuto in questi anni dal permitting statale italiano sulle FER.
Qualcosa ha funzionato meglio, qualcosa ha funzionato meno bene. Qualcosa non ha funzionato. Non sempre è evitabile che gli esiti di uno sforzo inedito, a misura di Paese intero, siano questi, cioè diversificati. Quando in concreto ciò non riesce ad essere evitato, è allora ancor più importante che venga tesaurizzato il senso delle esperienze pregresse, affinché diventi il punto di partenza per elaborare un assetto migliore, più avanzato.
È, a mio modesto parere, la sfida con la quale occorre misurarsi, adesso.
L'avvento su scala continentale di importanti strumenti pianificatori come PNRR e PNIEC è stato accompagnato da aspettative e interrogativi. Fra questi ultimi, dall'interrogativo se l'Italia fosse in grado di mobilitare una capacità amministrativa in grado di fronteggiare l'ambiziosità degli obiettivi necessariamente da traguardare per i Paesi partecipanti alle trasformazioni pianificate attraverso quei due importanti strumenti.
A distanza di pochi anni, è possibile dire che la risposta a questo interrogativo è affermativa. I numeri crescenti degli esiti del permitting statale in materia di valutazioni di impatto ambientale (pareri per 7,5 GW equivalenti nel 2022, per 10,5 GW nel 2023, e, a metà 2024, già per ben 6 GW) sono molto chiari. Questa risposta è, tuttavia, un nuovo punto di partenza, non certamente un punto di arrivo. E stimola, quindi, nuove domande. In particolare, occorre considerare che (anche) la capacità amministrativa, se non è una risorsa scarsa, è certamente una risorsa non infinita.
È necessario perciò interrogarsi se, nel presupposto della naturale finitezza della capacità amministrativa di un sistema di permitting, sia cosa ragionevole accettare il rischio di “disperderla” fra una moltitudine indifferenziata di progetti considerabili (secondo una forse malintesa idea di egualitarismo, essenzialmente formale, se non formalistica) tutti indistintamente promettenti, oppure, viceversa, concentrarla (anche attraverso gradazioni di ordine temporale) sui progetti realmente promettenti, da identificarsi attraverso uno o più fattori (oggettivi e trasparenti) di tipo selettivo.
L'esplosione della domanda di permitting in Italia, che ha trovato il suo punto di scaturigine in quelle epocali operazioni di pianificazione indicate in principio, pone oggi con forza proprio questo tema della ricerca di un punto di equilibrio nella commisurazione proporzionata fra i) target assunti attraverso impegni internazionali, ii) volume dell'interesse del sistema produttivo (quale certificato dal numero delle istanze di valutazione ambientale formalizzate, diversissime fra loro anzitutto dal punto di vista del rispettivo potenziale di trasformarsi davvero in impianti realizzati e messi in esercizio) e, infine, iii) capacità amministrativa esplicabile dagli apparati pubblici. Non è questione semplice da affrontare, ma non è neppure questione oggi eludibile.
Dalla soluzione che sarà possibile trovare ad essa passa, infatti, non meno che la possibilità di dare effettività nel nostro Paese al conseguimento della transizione ecologica, e, in particolare, di quella energetica.