A valle di articoli, interventi, dibattiti negli ultimi mesi sul possibile ruolo dell’energia nucleare per l’Italia, ma soprattutto dopo le dichiarazioni recenti di alcuni politici e ministri e a fronte di una prima iniziativa importante, quale il lancio della “Piattaforma per il Nucleare sostenibile” da parte del Ministro Pichetto-Fratin, è più che lecito porsi la domanda: ad oggi, la tecnologia nucleare disponibile potrebbe supportare una nuova rinascita del nucleare in Italia?
Il quesito è ben posto: infatti, se appare assai facile prevedere un notevole successo futuro per la fusione – per alcuni il “graal” dell’energia, per altri una sfida al limite dell’impossibile – così come per i reattori avanzati (comunemente identificati col termine “IV generazione”) e la loro potenziale capacità di ridurre il problema dei rifiuti radioattivi più pericolosi e a vita lunga, tuttavia i termini “oggi” e “disponibile” costringono a guardare il panorama energetico europeo e nazionale senza l’ausilio del binocolo, ma forzando uno sguardo ad occhio nudo.
Mettiamo quindi un utile target temporale a questo “oggi” che sia coerente col concetto di “rinascita in Italia”. L’obiettivo potrebbe essere la fine del decennio o i primi anni del successivo. Diciamo entro un decennio da oggi. Non è realistico, infatti, pensare di avere qualcosa in costruzione o già costruito nel nostro Paese prima di tale data.
Perché? Non si tratta principalmente dei tempi di costruzione. Sì, qualcuno potrebbe – giustamente – obiettare che le esperienze più recenti di realizzazione di reattori di ultima generazione (la cosiddetta III generazione) nel mondo occidentale non sono state propriamente un successo (leggi Olkiluoto 3 in Finlandia, Flamanville 3 in Francia, Vogtle 3 e 4 e VC Summer in USA). Anzi, oso aggiungere, sono stati grandi fallimenti “di successo”: fallimenti letterali delle aziende progettiste-realizzatrici, Areva e Westinghouse, nonché fallimenti industriali e commerciali per gli enormi ritardi (circa 10 anni) e gli extra-costi (+300%), ma nonostante il dramma imprenditoriale pur tuttavia di successo, perché oggi finlandesi e statunitensi ringraziano di avere a disposizione grandi quantità di energia in modo certo e stabile e a prezzi competitivi, o almeno prevedibili.
Non è, in senso stretto, un tema di tempi costruzione perché l’Italia potrebbe replicare la stessa soluzione scelta dagli Emirati Arabi Uniti nel 2008: lanciare una gara internazionale, selezionare la miglior nuova tecnologia nucleare disponibile, ma soprattutto scegliere un costruttore, o meglio un sistema industriale nucleare, che sia credibile, affidabile, performante. E in poco più di un decennio avere il primo di 4 grandi reattori, funzionante. Il lato verso della medaglia però indicherebbe esplicitamente la lista dei nomi tra i quali scegliere i partner: Corea del Sud, Cina, Russia. Ossia i Paesi che negli ultimi 20 anni hanno connesso alla rete almeno uno se non due reattori nucleari all’anno. E che, per inciso, hanno costruito proprio gli stessi reattori francesi e statunitensi, ma senza enormi ritardi e incredibili sforamenti di budget. Nel mentre, invece, Europa e USA per quasi due decenni sono rimasti al palo senza alcuna realizzazione, prima di costruire Olkiluoto e Vogtle.
Evidentemente si potrebbero fare tutte le considerazioni geopolitiche, industriali e sindacali del caso su una ipotesi simile. La “tecnologia nucleare disponibile” citata in apertura sarebbe comunque là, a disposizione, una tecnologia con la quale Fukushima non sarebbe mai accaduta.
Eppure, anche nel caso di una scelta così estrema, in grado di portare a compimento la costruzione di un reattore in 6-7 anni, il decennio sarebbe comunque necessario. Perché per rientrare nel nucleare, non basta il reattore. Servono almeno altre 18 infrastrutture, dice l’Agenzia per l’Energia Atomica (IAEA) di Vienna, materiali e immateriali. La prima: una decisione politica, non ferocemente osteggiata dall’opposizione, corroborata da una legge che delinei le caratteristiche, i criteri, i vincoli del nucleare “all’italiana”. E poi una autorità di sicurezza nucleare nazionale, adeguatamente dotata di fondi e personale competente, in grado di prendersi la responsabilità di approvare (o meno) il progetto e la realizzazione di un impianto nucleare sul territorio italico. A questa aggiungiamo: la preparazione delle risorse umane in numero e competenze adeguate, per l’intero sistema (industrie, istituzioni, enti di ricerca, università); l’istituzione di una struttura governativa che curi, coordini e implementi la strategia nucleare nazionale; una strategia di coinvolgimento di tutti gli stakeholder, in particolare l’informazione completa e trasparente dei cittadini; la realizzazione del deposito nazionale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi (per la mancanza del quale siamo ancora in infrazione verso la Comunità Europea), vera cartina di tornasole per la verifica sia della volontà politica sia della maturità culturale di noi cittadini. E diverse altre “infrastrutture”, indispensabili per un avvio stabile e robusto di una decisione strategica per il Paese, per completare le quali serviranno realisticamente dai 3 ai 5 anni.
Tornando alla domanda circa la tecnologia disponibile nel decennio, esistono “piani B” rispetto all’opzione “facciamoci costruire un grande reattore dai coreani”? È assai probabile che esistano un paio di alternative, entrambe europee.
La prima: una profonda revisione del progetto del grande reattore evolutivo, della supply chain e della strategia di gestione di un mega-progetto così complesso e impegnativo. I francesi stanno già da tempo rivedendo il design dell’EPR (il reattore costruito a Olkiluoto e in completamento a Flamanville), anche attraverso una riduzione della taglia, da 1.600 a 1.200 MWe. Per il piano “monstre” di costruzione di 6 nuovi EPR2 – più altri eventuali 8 – nei prossimi anni, i francesi hanno bisogno che si strutturi una supply chain nucleare europea, capace e coesa. E devono imparare dagli errori di management fatti sui cantieri finlandesi e francesi.
La seconda opzione, in realtà più complementare che alternativa alla prima, è offerta dallo sviluppo degli Small Modular Reactors, entro il decennio. Reattori di taglia molto più piccola, inferiore ai 300 MWe, di design semplificato rispetto ai grandi reattori, basati su sistemi di sicurezza di tipo passivo, progettati in modo da essere costruiti in serie e in moduli, da realizzare in officina e da trasportare e assemblare (non costruire) sul sito, riducendo al contempo la complessità quindi i tempi di costruzione e limitando il rischio finanziario dell’impresa, richiedendo 1-2 miliardi di investimento invece che 10-12. I francesi stanno sviluppando Nuward, un SMR da 170 MWe, i finlandesi e i cechi pensano anche a qualcosa di più contenuto, da dedicare al teleriscaldamento dei grandi centri urbani. Di recente EdF, Edison e Ansaldo (sia la capofila Energia sia la controllata Nucleare) hanno siglato una partnership per lo studio di una simile soluzione per l’Italia, con Edison pronta (“se si realizzeranno le condizioni”, come dichiarato dall’AD Monti) a pensare ad un paio di centrali nel Nord Italia.
Rimane però una domanda di fondo. Anche se la tecnologia nucleare migliore fosse disponibile, oggi o entro il decennio, l’Italia sarebbe in grado? L’Italia sarebbe pronta?
Per rispondere a questo ulteriore (e ancor più lecito) quesito, è opportuno citare tre paradossi italici, su ciascuno dei tre pilastri del nucleare (formazione, ricerca, industria) e lasciare al lettore la risposta.
Formazione: sin dagli anni ’50 del secolo scorso, nel Paese ancora operano 7 università dedicate alla formazione e alla ricerca nel campo dell’ingegneria nucleare (Palermo, Roma “La Sapienza”, Pisa, Bologna, Padova e i Politecnici di Torino e Milano). Sono consorziate nel CIRTEN (Consorzio Interuniversitario per la Ricerca Tecnologica Nucleare) e negli ultimi 4-5 anni hanno visto più che raddoppiare il numero di studenti nucleari, sebbene ancora oggi una decisione politica sull’energia nucleare non sia stata presa. In alcuni casi, si tratta dei corsi di laurea in ingegneria nucleari più numerosi in Europa.
Ricerca: sin dal 2018 (anno in cui uno specifico partito prese la responsabilità della gestione delle politiche del Ministero dello Sviluppo Economico) l’Italia non finanzia più la ricerca sulla fissione nucleare – inoltre il tema non è presente neanche nel PNR (Piano Nazionale della Ricerca), né nel PNRR, pur essendo il nucleare riconosciuto nella EU Green Taxonomy; ebbene, nel 2021 l’Italia registra il record storico di progetti di ricerca selezionati e finanziati da Euratom (l’istituzione deputata a gestire e finanziare le attività nucleari in Europa): su 47 progetti approvati, ben 24 (poco più del 50%) vedevano la partecipazione o la leadership di aziende o enti di ricerca o università italiane.
Industria: come forse molti ricorderanno, l’anno scorso i francesi, nel periodo di massima crisi energetica europea, hanno ridotto moltissimo la loro produzione elettronucleare. Per due motivi: diversi reattori spenti per alcuni mesi a causa della manutenzione decennale programmata; ma ben 12 reattori arrestati per quasi un anno dall’autorità di sicurezza nucleare francese (ASN), per piccoli punti di corrosione trovati nelle tubazioni vicine al reattore. Per poter riavviare le centrali EdF doveva comprendere il problema, trovare una soluzione, farla approvare da ASN e realizzarla. Fatto tutto questo e giunti alla fase di realizzazione, EdF ha chiesto alle aziende francesi quali fra loro fossero in grado di realizzare i pezzi sostitutivi, tutti in acciaio inox, forgiati senza saldatura, in alta qualità, in tempi rapidi e al “giusto prezzo”. Nessuna azienda francese ha risposto. EdF si è vista quindi costretta ad estendere la ricerca ad altri paesi. Ha infine trovato due aziende in Europa in grado di rispondere alle richieste: entrambe sono italiane, addirittura entrambe sono del piacentino (Tectubi Raccordi e IBF). Hanno fornito i pezzi necessari e i 12 reattori sono tornati in funzione. Alleviando la crisi energetica dell’inverno francese e (visto il nostro import costante di elettricità d’Oltralpe) un po’ anche quello italiano.