Se è vero che non è sempre facile prevedere l’andamento del prezzo del petrolio, frutto simultaneo di variabili economiche e geopolitiche, è altrettanto vero che quest’ultima corsa del Brent è stata ampiamente preannunciata, da banche d’affari, trader e accademici. Solo a titolo di esempio, già nel mese di luglio sul Blog di Energia Alberto Clo ipotizzava il raggiungimento di quota 100.

Come mai il prezzo del petrolio è diventato prevedibile? E a distanza di pochi anni da quando il WTI stupì tutto il mondo finendo sotto zero?

 In realtà non è diventato prevedibile il prezzo del petrolio, ma la determinazione dei paesi produttori di petrolio nel difendere certi livelli è cresciuta, diventando oltretutto una bandiera sotto la cui egida si raggruppano gli interessi di ben 23 nazioni. A dispetto di guerre o storiche antipatie, l’alleanza OpecPlus è coesa e ha in mano le chiavi di oltre la metà della produzione petrolifera mondiale, circa 51 milioni di barili giorno (se si comprendono anche i paesi esentati dalle quote, Libia, Venezuela e Iran). Un gigantesco rubinetto, che può essere aperto o chiuso per influenzare il prezzo del petrolio, che – almeno in parte – resta il prodotto dell’incontro tra domanda e offerta.

 

 Andamento del prezzo del petrolio (doll./bbl)

Fonte: Elaborazione Staffetta Quotidiana su dati Ice e Nymex

 

Orbene, sono diversi mesi ormai che l’offerta di petrolio viene tenuta a freno, principalmente dall’Arabia Saudita che resta ancora il grande “swing producer” della coalizione e che, a partire da luglio, ha posto in essere un extra taglio alla produzione di un milione di barili giorno (mentre la Russia ha ridotto volontariamente l’output di altri 500.000 b/g), con la motivazione di generici timori relativi al rallentamento economico in Cina. Paese che consuma oltre 15 milioni di barili al giorno di petrolio (secondo solo agli Usa, che ne consumano 20 milioni).

Questa nuova aggressiva politica di “marketing internazionale” dell’OpecPlus proseguirà fino a fine anno ed è la risposta a quelle che sono considerate due grandi minacce occidentali. 

 La prima, più importante, è la transizione energetica, perseguita non per motivi economici o tecnologici, ma per esigenze politiche: le compagnie occidentali hanno smesso di fare investimenti Oil&Gas massicci in Medio Oriente o in Africa da molto tempo ormai, per orientarsi verso nuove forme di energia più pulita, in modo da rispettare gli obiettivi di neutralità carbonica e i criteri di sostenibilità. Anche se adesso il mondo consuma più di 100 milioni di barili al giorno, l’obiettivo delle compagnie occidentali è quello di erodere strutturalmente questa domanda con l’uso di biocarburanti, efuels, auto elettriche. Di fronte a questi propositi annunciati e praticati, i paesi produttori di petrolio stanno correndo ai ripari, per massimizzare quelli che dovrebbero essere gli “ultimi” guadagni.

 La seconda minaccia occidentale è l’aumento dei tassi da parte delle banche centrali occidentali. Una mossa che ha l’effetto positivo di diminuire l’inflazione all’interno dei paesi che l’adottano, ma che rende più pesanti gli eventuali debiti contratti dai paesi che non battono valute “forti”. Come dimostrano le crescenti difficoltà del colosso cinese Evergrande, indebitato per oltre 300 miliardi di dollari. Che la politica monetaria restrittiva messa in atto dalle banche centrali occidentali non sia vista di buon occhio dalle autocrazie del petrolio lo si evince anche da quanto ha detto il ministro Saudita dell’energia, Abdulaziz bin Salman, intervenendo al World Petroleum Congress in Canada la scorsa settimana, paragonando la condotta dell’OpecPlus a quella delle banche centrali: “benevola”, atta a stabilizzare i mercati e a mettere l’accento sulla “sicurezza energetica”. Lasciando intendere che se l’Occidente vuole petrolio a buon mercato, deve tornare a investire.

 In quello che ormai sembra ogni giorno di più un dialogo tra sordi, si inserisce l’annosa querelle su dati e previsioni riguardo al mercato del petrolio tra l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) e Opec. Le due istituzioni internazionali ogni mese aggiornano stime e statistiche su domanda e offerta non solo di petrolio, ma anche di tutti gli altri prodotti. Un esercizio che AIE svolge da ben quaranta anni.

È dal 2021 che queste proiezioni e stime non vanno più di pari passo, quando in maggio l’AIE pubblicò il rapporto “Net zero entro il 2050: una roadmap per il sistema energetico globale”, spiegando che l’offerta di petrolio sarebbe dovuta crollare del 75% entro il 2050 a circa 25 milioni di barili giorno per raggiungere emissioni zero. Uno studio che è stato definito dai sauditi come un’opera di fantasia, il proseguimento del musical hollywoodiano “La La Land”.

La scorsa settimana la polemica è venuta nuovamente alla luce, dopo che il direttore esecutivo dell’AIE Fatih Birol ha pubblicato sul Financial Times un editoriale intitolato “Il picco della domanda di combustibili fossili avverrà nel corso di questo decennio”, affermando che le ultime proiezioni mostrano una crescita dei veicoli elettrici in tutto il mondo, soprattutto in Cina, tale da rendere la domanda di petrolio destinata a raggiungere il picco prima del 2030. A questa ultima provocazione l’Opec ha risposto con un comunicato ufficiale che contesta apertamente queste previsioni, “non supportate dai dati” ed estremamente rischiose perché invitano a disinvestire dalle fonti fossili. Cosa che secondo l’Opec porterà al “caos energetico”. Senza contare che l’Agenzia di Parigi non tiene minimamente in considerazione tutti i progressi che l’industria Oil&Gas ha fatto in questi anni per quel che riguarda il contenimento delle emissioni, come l’idrogeno, la cattura e il sequestro della CO2 e l’economia circolare. L’editoriale di Birol non è andato giù neanche a Amin Nasser, presidente e Ceo di Saudi Aramco, che ha inizialmente ironizzato sulle previsioni del picco (“un tempo si parlava del picco dell’offerta, oggi di quello della domanda, per me restano entrambi concetti abbastanza vaghi”), poi ha detto che anche Aramco supporta l’accordo di Parigi e il raggiungimento di emissioni “net-zero”, ma il mondo deve abbandonare “scenari non realistici”, che costano quanto l’intero Pil mondiale (si parla di oltre 100 trilioni di dollari, solo per iniziare).

Questa guerra di dati e ideologie - venuta ormai del tutto allo scoperto - contribuisce a rendere il mercato del petrolio un luogo ancora più infido e instabile di quanto sia mai stato in passato. Al rally di oggi potrebbe seguire il crollo di domani, se solo si incrinasse l’alleanza russo-saudita, oppure se ci fosse qualche cambiamento politico all’interno delle due superpotenze capofila, visto che l’OpecPlus si fonda prevalentemente su rapporti di fiducia tra autocrati. Un luogo infido che rende ancora più difficile l’attrazione di quei capitali upstream delle compagnie occidentali, tanto invocati dai sauditi. E – laddove possibile – ancora più urgente la transizione energetica, persino quella “ideologicamente guidata”, per provare a spezzare questa spirale di recriminazioni tra democrazie e autocrazie, che non sembra portare a niente di buono.