L’impatto che le sanzioni ai prodotti petroliferi avranno sui noli dipende da tantissimi fattori, molti dei quali pressoché imponderabili. Ecco perché, le previsioni su come andrà il mercato cisterniero relativo al naviglio atto al trasporto di oil product dopo il prossimo 5 febbraio vanno valutate tenendo a mente la conclusione alla quale giungeva Doris Day cantando la celebre “Whatever will be, will be”. Ossia, the future is not ours to see. Però, se la sorte non provocherà eccessivi imprevisti e ci s’accontenta di ragionare in termini di trend, non è proprio vero che the future is not ours to see.

Infatti, ha insegnato qualcosa l’esperienza maturata dopo l’avvio della cosiddetta “Operazione Speciale” voluta da Putin e specialmente dopo l’embargo al greggio russo decretato dall’Unione Europea il 3 giugno scorso, ma entrato in vigore a partire dal 5 dicembre 2022. In particolare, che cosa hanno insegnato gli undici mesi di guerra in Ucraina? Che quel conflitto ha rivoluzionato non tanto il quantitativo d’oro nero movimentato via mare, bensì due altri importantissimi fattori per la quantificazione del rapporto tra domanda e offerta di tanker: la lunghezza media delle rotte battute in prevalenza dalle petroliere, la quale è salita, e l’efficienza del tonnellaggio cisterniero, la quale è calata. Con quale risultato? Che si è mossa all’insù la richiesta di naviglio.

Perché le rotte si sono allungate? Perché sono saltati gli schemi tradizionali d’approvvigionamento, sicché - per fare un esempio davvero eclatante - il crude oil e gli oil products che la Russia esporta dal Baltico non raggiungono più in prevalenza il porto tedesco di Wilhelmshaven, che è a pochi giorni di navigazione dai terminal d’imbarco presenti a Primorsk e a Ust-Luga, ma a partire dal 5 dicembre scorso vanno facilmente nel Pacifico asiatico. E perché è discesa l’efficienza media delle petroliere? Per la diffusione del cosiddetto dark trade. Ossia, l’interscambio petrolifero che non rispetta l’embargo alle spedizioni via mare dell’oro nero estratto in Russia, in Iran e in Venezuela. Infatti, il dark trade implica, per evitare d’incappare nei controlli, un cauto utilizzo del tonnellaggio e soprattutto il frequente utilizzo di ciò che in gergo è detto STS, ovverlo lo ship-to-ship, il quale nel caso specifico è un marchingegno così concepito:  la compagnia che s’impegna a provvedere alla consegna del carico al suo destino finale non inizia il viaggio mandando la propria petroliera a imbarcare l’oro nero direttamente – ad esempio - in Russia, ma assume il ruolo del vettore solo dopo aver attinto l’olio minerale da una altrui cisterna, la quale – essendo disposta a mettersi a repentaglio di fronte alla prospettiva d’un lauto guadagno - ha fatto la spola tra il terminal russo e un meeting point collocato ove è possibile realizzare un transhipment in acque internazionali sicure.

Inoltre, il dark trade non solo è alquanto diffuso (tanto è vero che si stima coinvolga qualche centinaio di petroliere), ma è una pratica destinata ad allargarsi, poiché la decisione assunta da Bruxelles di sottoporre a sanzione prima le spedizioni di greggio e poi quelle di prodotti raffinati contiene una grossa novità: il cosiddetto price cap. Di che si tratta? Di qualcosa che non è previsto nel caso dell’embargo alle spedizioni petrolifere tanto dell’Iran, quanto del Venezuela e che nel campo dei traffici di crude oil – ove è in vigore da un paio di mesi – sta complicando davvero la vita a Rosneft, LukOil, ecc. Cioè, alle aziende moscovite che curano l’export sia dell’oro nero da esse estratto nella Siberia occidentale, negli Urali e nell’area del Caspio, sia degli oil product raffinati presso i loro impianti in Russia. In concreto, il price cap è il divieto imposto alle aziende aventi sede negli Stati che hanno aderito a tale meccanismo di provvedere al trasporto e all'assicurazione degli oli minerali russi se, nel caso del crude oil, l’importatore – chiunque esso sia – paga il carico oltre 60 dollari al barile. Cioè, più del tetto definito dal G7 dopo una sofferta trattativa. Insomma, il price cap è un meccanismo che lega le mani agli armatori di cisterne, ma anche alle aziende operanti nei cosiddetti servizi ausiliari alla navigazione (società d’assicurazioni, shipbrokers, agenzie marittime e via dicendo), se le radici di quest’ultime stanno nei paesi che tale abbinata hanno voluto.

Chi sono questi paesi? In primis, quelli facenti parte del G7: Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti. Però, l’UE è un invitato permanente a questo forum intergovernativo, sicché il price cap è pure applicato da tutti i restanti 24 appartenenti all’Unione (con – per quanto riguarda l’embargo – sostanzialmente la sola eccezione dell’Ungheria, relativamente al greggio russo che arriva via oleodotto in terra magiara). E poiché a questa massa di nazioni si è autonomamente aggregata l’Australia, è chiaro che la potenza di fuoco schierata contro la Federazione guidata da Putin non è roba da poco. Anche perché oltre la metà delle cisterne che trasportano il petrolio fuori dalla Russia battono bandiera greca (e, quindi, è tonnellaggio formalmente vincolato al rispetto delle disposizioni dell’Unione Europea). Inoltre, i principali assicuratori tanto delle spedizioni d’oro nero, quanto delle tanker che il petrolio lo trasportano hanno sede nell’Unione Europea, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.

Naturalmente, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, sicché la potenza di fuoco che il price cap schiera contro il Cremlino non è robusta quanto appare sulla carta. Comunque, è notevole e questa realtà ha indotto a un’intensificazione del dark trade e, di conseguenza, a un calo dell’efficienza della flotta cisterniera. Naturalmente, tale fenomeno sta avendo notevoli effetti positivi sui noli pagati alle tanker. Tanto più che per un gioco di circostanze gli armatori possono contare su un modestissimo order book di nuovo naviglio. Ossia, su un’offerta di tonnellaggio rigida. Ecco perché non è precisamente vero che the future is not ours to see. Però, è vero che è troppo presto per provare a capire quali rotte e quali cisterne saranno particolarmente beneficiate dall’estensione del meccanismo del price cap agli oil product. Per una ragione molto semplice: nel caso dei raffinati, il price cap va definito prodotto per prodotto. E una quantificazione di questo genere è tutt’altro che semplice, data la massa degli interessi in gioco. Del resto, il tetto dei 60 doll/bbl fu deliberato all’ultimissimo minuto e solo perché di fatto Washington l’impose, ritenendo che un price cap di tale entità fosse quanto consentiva di ridurre le entrate di Mosca senza impedire all’oro nero russo di restare sul mercato.

Infatti, il price cap mira a realizzare una sorta di quadratura del cerchio: far male al Cremlino senza al contempo esageratamente nuocere all’economia dei paesi che gli si oppongono. Solo i prossimi mesi chiariranno se i tetti stabiliti ai vari oil product erano i più adeguati al conseguimento d’un tale scopo.