I modi per limitare la rendita petrolifera russa sono oggetto di dibattito, in Europa e negli Stati Uniti, sin dai giorni immediatamente successivi all’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio. L’assunto di fondo è che Mosca utilizzi larga parte dei ricavi delle esportazioni energetiche per finanziare il suo sforzo militare e che la riduzione di questi ricavi possa contribuire ad accelerare la fine delle ostilità. Il taglio delle importazioni si inserisce, quindi, nel quadro della strategia di pressione economica che ha portato all’adozione e al rafforzamento delle sanzioni cui la Russia è oggi sottoposta. Tuttavia, se sul ‘cosa fare’ è sempre esistita una sostanziale convergenza, sul ‘come farlo’ le differenze sono state, sin dall’inizio, significative. Già ai primi di marzo, gli Stati Uniti hanno messo al bando tutte le importazioni di petrolio e gas naturale dalla Russia. Il Regno Unito ha raggiunto a giugno l’obiettivo di azzerare l’import di petrolio da Mosca, obiettivo originariamente fissato per la fine dell’anno. Un insieme di fattori tecnici e politici ha, invece, imposto ai paesi dell’Unione europea l’adozione di un approccio più gradualista, approccio che, tuttavia, ha incontrato diversi problemi nella sua implementazione.
Agli inizi di giugno, il sesto pacchetto di sanzioni adottato dall’Unione ha imposto un embargo su tutto il greggio e i prodotti petroliferi importati via mare dalla Russia. Agli inizi di dicembre è diventato effettivo lo stop alle importazioni di greggio e agli inizi del prossimo febbraio dovrebbe diventare effettivo quello sui prodotti della raffinazione. Dal provvedimento sono, tuttavia, escluse le importazioni via terra (pari al 10% circa del totale); esenzione pensata soprattutto per le esigenze di Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, servite dalla diramazione meridionale dell’oleodotto Druzhba. A metà maggio, l’Unione aveva già adottato il piano RePowerEU (annunciato nel marzo precedente), con cui ha definito un primo set di obiettivi per ridurre rapidamente la sua dipendenza dai combustibili fossili russi e accelerare la transizione verde, aumentando, al contempo, la resilienza del suo sistema energetico. Nei mesi seguenti, sono state introdotte altre misure, per la gestione degli stoccaggi, il contenimento dei consumi, il miglioramento dell’efficienza energetica e la differenziazione dell’insieme dei fornitori.
Una questione critica è stata quella della definizione di un tetto di prezzo per gli acquisti di greggio russo. Negli scorsi mesi, il tema di un possibile price cap è stato fra i più dibattuti e solo gradualmente si è formato un consenso di fondo intorno all’opportunità della misura. Questo consenso di fondo si è, tuttavia, scontrato con la difficoltà di definire un tetto credibile, che potesse risultare effettivamente penalizzante per l’export russo senza, tuttavia, essere troppo distorcente del mercato. L’attuale tetto di 60 dollari al barile, valido per due mesi e soggetto a revisione, con l’obiettivo di mantenerlo a un livello inferiore di almeno il 5% rispetto al prezzo di mercato del greggio russo, è considerata da alcuni una soluzione solo in parte soddisfacente. Paesi come la Polonia e le Repubbliche baltiche, in particolare, hanno già espresso la loro insoddisfazione per una misura che – a loro dire – non toccherebbe abbastanza gli interessi di Mosca. D’altro canto, anche se vicino dal prezzo effettivo spuntato dal greggio russo, il tetto adottato appare quello in grado di raccogliere i più consensi, sia dentro, sia fuori l’Unione.
Negli scorsi giorni, l’amministrazione statunitense si è spesa attivamente a favore di un cap compreso fra 65 e 70 dollari, mettendo anche in guardia gli alleati europei contro i rischi alle forniture che avrebbero potuto derivare dall’introduzione di un tetto troppo basso. Il tetto a 60 dollari ha, inoltre, incontrato il favore degli altri paesi del G7 e dell’Australia, che hanno annunciato la loro intenzione di adottare un simile provvedimento dopo la sua adozione da parte dell’UE. La domanda di fondo è quale potrà essere la reazione russa. Da un lato, infatti, Mosca ha ripetutamente dichiarato di non volere vendere il suo petrolio a paesi che adottino il meccanismo del price cap, dall’altro si è dichiarata, in altre occasioni, possibilista, affermando di volersi riservare la decisione finale una volta noti il tetto effettivo e i dettagli di funzionamento del meccanismo. A questo proposito è stato anche rilevato come, pur essendo il tetto attuale abbastanza lontano dal prezzo di riferimento del Brent sul mercato internazionale, esso non sarebbe comunque troppo distante da quello – scontato – al quale si scambia oggi il greggio russo.
Un altro elemento di incertezza riguarda la capacità di Mosca di riallocare la sua capacità produttiva, indirizzandola verso paesi diversi da quelli della ‘price cap coalition’ e senza sfruttarne i servizi finanziari, assicurativi e di trasporto, le cui prestazioni sono precluse alle transazioni effettuate a prezzi superiori al tetto fissato. Anche in questo campo, l’opacità del mercato rende difficile fare previsioni affidabili. Secondo alcune stime, l’applicazione del price cap imporrebbe, comunque, alla Russia di trovare nuovi sbocchi commerciali per circa un milione di barili al giorno oggi assorbiti dal mercato europeo; ciò a fronte di costi di commercializzazione crescenti a causa dell’impossibilità di accedere ai servizi offerti dai paesi della coalizione e di una domanda in calo sui mercati asiatici, a causa dell’impatto avuto dalla ripresa della pandemia COVID-19 sull’economia cinese. In questa prospettiva, il tetto a 60 dollari sarebbe sufficiente, secondo l’amministrazione statunitense, a mettere abbastanza pressione sulla Russia senza portare a picchi nei prezzi dell’energia e senza alimentare le attuali tensioni inflazionistiche.
In effetti, il dibattito sul price cap e il livello al quale fissare il tetto riflette due insiemi di priorità molto diversi. Da una parte, quello dei paesi che – come la Polonia e le Repubbliche baltiche – lo vedono soprattutto come uno strumento di pressione, il cui valore risiede, per prima cosa, nella capacità di produrre i risultati attesi nel minor tempo possibile e al di là dai possibili costi. Dall’altra, esso riflette quello dei paesi che – come gli Stati Uniti e la maggior parte di quelli dell’Europa occidentale – lo vedono soprattutto come uno strumento grazie al quale tenere sotto controllo la dinamica dei prezzi energetici, evitando che clausole troppo rigide possano innescare una corsa indiscriminata agli acquisti o spingere Mosca a tagli drastici della produzione. In quest’ottica, il tetto così come è stato definito costituisce – più che la soluzione migliore per soddisfare l’uno o l’altro fronte – il compromesso più praticabile di fronte alla necessità di dare un segnale ‘forte’ alla comunità internazionale, soprattutto in momento come l’attuale, in cui le crepe della coalizione pro-Kiev sembrano essere diventate più evidenti.
La vera efficacia del provvedimento potrà essere valutata solo nel tempo. Politicamente, l’accordo raggiunto rappresenta un successo; successo che, però, non nasconde le divisioni che continuano a esistere sia fra i diversi paesi europei, sia fra questi ultimi e gli Stati Uniti. Soprattutto, la critica rivolta a Washington è quella di fare poco per contenere gli alti costi dell’energia che gravano sul Vecchio continente. Ciò vale, in particolare, nel caso del gas naturale. Nel corso del 2022, l’import di GNL dagli Stati Uniti è aumentato di 26 miliardi dei metri cubi, quasi il doppio rispetto ai 15 miliardi concordati a marzo dal presente Biden e da quello della Commissione europea, von der Leyen. Tuttavia, questo aumento non si è tradotto in un parallelo livellamento dei prezzi, che negli USA restano molto più bassi. Unito alle misure per il rilancio dell’economia che l’amministrazione ha adottato negli ultimi mesi, il differenziale esistente sta, inoltre, portando distorsioni significative delle scelte di investimento delle aziende europee, distorsioni che si potrebbero accentuare in caso il differenziale dovesse allargarsi e che potrebbero avere riflessi negativi sull’intero sistema dei rapporti Stati Uniti/Europa.