L’ingresso del gas e del nucleare nella tassonomia degli investimenti sostenibili dell’Ue, come fonti di sostegno alla transizione energetica, ha determinato un’importante spaccatura in Europa. I limiti identificati però rischiano di disincentivare gli investimenti, soprattutto perché le attuali tecnologie non consentirebbero facilmente il raggiungimento degli obiettivi. Ma facciamo un passo indietro, provando a capire meglio le conseguenze del voto e gli obiettivi della tassonomia, il contesto nel quale si inserisce e i limiti che sono stati identificati per gli impianti di generazione elettrica a gas.

Il voto della Plenaria di Strasburgo, sulla risoluzione approvata dalle commissioni Ambiente ed Economia dell’Europarlamento di rigetto dell’atto delegato UE, ha modificato le geografie dei gruppi politici che componevano la cosiddetta maggioranza Ursula, vedendo correre in soccorso della tassonomia e della linea della Commissione i gruppi dei Conservatori e Riformisti, e di Identità e Democrazia. Con 328 voti contrari, 33 astenuti e 278 favorevoli chi voleva gas e nucleare fuori dai possibili investimenti green non ha raggiunto neanche la maggioranza relativa.  La tassonomia europea nasce infatti come strumento di trasparenza, semplificazione e chiarezza per gli investitori e per le imprese, affinché sappiano se le loro attività sostengono il raggiungimento dell’obiettivo di neutralità climatica nei prossimi 30 anni, al fine di accedere a fonti e a strumenti agevolati di finanziamento. È utile, in parte, anche per sensibilizzare gli investitori sul dilagante fenomeno del greenwashing.

I target ambiziosi del piano REPowerEU, di decarbonizzazione al 2030 e al 2050, necessitano di ingenti investimenti privati che, nell’ottica della sussidiarietà propria dell’Unione, devono aiutare gli Stati Membri in questo sforzo comune, avvertendo quindi la necessità di un quadro regolatorio certo e stabile. C’è da dire che attualmente i mix energetici dei diversi Stati Membri si trovano in condizioni profondamente diverse, con differenti livelli di sviluppo tecnologico, diverse potenzialità economiche e soprattutto diversi contesti morfologici e di risorse naturali (questi ultimi due non superabili, ma al contempo molto influenti nelle scelte strategiche dei singoli Paesi).

Quindi, uniti nelle diversità, la tassonomia non determina se una tecnologia entrerà o meno nel mix energetico degli Stati membri perché, ex art. 194 TFUE, le misure energetiche dell’Unione non incidono sul diritto di uno Stato membro di determinare le condizioni di utilizzo delle sue fonti energetiche, né sulla scelta tra varie fonti energetiche e sulla struttura generale del suo approvvigionamento. La tassonomia ha il solo scopo di presentare tutte le possibili soluzioni per accelerare la transizione - secondo il principio di neutralità tecnologica, già enunciato nella DAFI  - per aiutare l’Europa a realizzare in maniera armonizzata gli obiettivi climatici. Queste tecnologie, validate dai pareri scientifici di esperti, consentiranno di abbandonare più rapidamente attività che ad oggi sono più inquinanti, come per esempio la produzione di carbone, a vantaggio delle fonti rinnovabili di energia, che sono la base principale di un futuro a impatto climatico zero. Tuttavia le rinnovabili, con le tecnologie ad oggi conosciute, per la loro intermittenza sono intrinsecamente instabili e, in questa fase transitoria, la stessa Commissione ha ritenuto necessaria l’inclusione di gas e nucleare come abilitatori della transizione. È da considerare che in questo particolare periodo storico, più che mai, l'approvvigionamento energetico diventa sinonimo di sicurezza, stabilità economica e possibilità di sviluppo e competizione sui mercati.

La transizione energetica infatti va condotta su una strada sostenibile, così che non comporti costi eccessivamente onerosi per  famiglie e  imprese, ma anche per le politiche degli Stati Membri, che ad oggi si trascinano svantaggi di contesto non ancora risolti, come alcuni Paesi dell’Est  fortemente dipendenti dal carbone. Il gas naturale quindi viene identificato come un combustibile di transizione, solo a condizioni rigorose e per un dato periodo di tempo, con la possibilità di rivedere a cadenze fissate e in ottica più restrittiva le condizioni in base all’avanzamento tecnologico.

Eppure la mediazione ottenuta sugli impianti di generazione elettrica a gas in tassonomia non è stata accolta con particolare favore da entrambe le parti, e potrebbe scoraggiare - come dicevamo - gli investimenti. I criteri per i nuovi impianti risultano particolarmente restrittivi, dovendo rispettare i requisiti di cui all'articolo 10, paragrafo 2, primo comma, lettere a), b) e c), del regolamento (UE) 2020/852. In particolare per la produzione di energia elettrica è opportuno prevedere un approccio alternativo alla limitazione diretta delle emissioni di gas a effetto serra. Secondo questo approccio gli impianti potrebbero raggiungere tali risultati, per esempio, limitando il numero di ore di esercizio. Le nuove centrali dovrebbero inoltre presentare una soglia emissiva diretta particolarmente bassa o con cattura e stoccaggio di carbonio, usando gas a basse emissioni (biometano/idrogeno) e impegnandosi ad eliminare completamente il gas naturale dal 2035, sostituendo impianti ad alte emissioni in circostanze dove l’equivalente produzione non può essere efficientemente ottenuta dalle rinnovabili.

In alternativa le emissioni di gas serra, di centrali esistenti o nuove, dovrebbero essere inferiori a 100 g CO2e/kWh (che è circa un quarto della migliore tecnologia attualmente disponibile) oppure a 270 g CO2e/kWh di energia generata, o non superiori a una media di 550 kg CO2e/kW della capacità dell’impianto nell’arco di vent’anni. La nuova capacità di produzione installata non dovrebbe superare di oltre il 15% la capacità dell’impianto sostituito. Sono ammessi poi gli impianti che prevedono una sostituzione che sortisca una riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 55 % nella durata di vita della nuova capacità di produzione installata, quelli che al momento della costruzione installino un dispositivo di misurazione per il monitoraggio delle emissioni fisiche (come quelle derivanti da perdite di metano) oppure introducano un programma di rilevamento e riparazione delle perdite. L’attività rispetta poi i criteri se miscela combustibili fossili con biocarburanti liquidi o gassosi, e le biomasse agricole e forestali soddisfano i criteri ex art. 29 della direttiva (UE) 2018/2001.

A queste limitazioni vanno ad aggiungersi, in ottica di trasparenza verso gli investitori, degli obblighi di informativa specifici per le imprese finanziarie e non finanziarie, secondo un modello comune che indichi chiaramente la quota delle attività connesse al gas fossile e all’energia nucleare al denominatore e, secondo il caso, al numeratore degli indicatori fondamentali di prestazione delle imprese. Questi meccanismi di trasparenza, secondo la direttiva Corporate Sustainability Due Diligence (Csdd), prevedono diversi livelli di obbligo per le imprese nel rendicontare le attività del bilancio di sostenibilità, più stringenti solo per le imprese con almeno 500 dipendenti e 140 milioni di euro di fatturato.

Tali verifiche sono svolte da un soggetto terzo indipendente, non in conflitto d’interesse con il titolare o il finanziatore, e non partecipe allo sviluppo o alla gestione dell’attività. Questo verificatore deve controllare il rispetto dei criteri tecnici e trasmettere annualmente alla Commissione una relazione nella quale certifichi il livello di emissioni dirette di gas serra, valuti se le emissioni stanno seguendo una traiettoria credibile per rispettare il valore limite medio nell’arco di 20 anni e attesti l’esistenza delle altre condizioni sopracitate.

Queste restrizioni potrebbero però avere effetti deleteri sulla capacità di ricorrere ai mercati finanziari anche quando, come nel caso delle centrali a gas, quegli investimenti sono necessari per garantire una maggiore sostenibilità della produzione elettrica. Per questo motivo, secondo alcuni, i criteri andrebbero integrati riconoscendo almeno fino al 2035 la sostenibilità delle centrali a gas necessarie a garantire la stabilità del sistema elettrico prevedendo, per le nuove centrali e per i rifacimenti, target che rientrino in quelli consentiti dalle best available technologies, con impegni sostenibili per la riduzione dell’impronta carbonica.

In particolare, per garantire sicurezza ma anche contenimento dei costi, per Paesi come l’Italia è importante realizzare un push sulle politiche europee che difendano tecnologie sulle quali è già stato fatto uno sforzo virtuoso, per le quali va incentivato un impegno infrastrutturale e che siano compatibili tra loro, come l’idrogeno e il gas decarbonizzato sul quale si intende investire, avendo chiari in prospettiva gli obiettivi di progressiva decarbonizzazione. Se ciò non avviene il costo ricadrà, inevitabilmente, sui cittadini e sulle imprese, già gravati dalle crisi in atto. E questo è assolutamente da evitare.