Qualsiasi guerra richiede interventi eccezionali degli stati nella gestione dell’economia.  Circostanza che a maggior ragione si sta verificando oggi in presenza di una guerra “ibrida”(così definita nel convegno “Energia Italia 2022”) che si sta svolgendo su tre fronti - Ucraina, prezzi delle materie prime, sicurezza degli approvvigionamenti - accomunati dalla medesima causa scatenante: negli ultimi decenni i rapporti delle nazioni europee con paesi al di fuori dell’Ue sono stati dettati da interessi essenzialmente mercantili, sottovalutando le implicazioni geopolitiche di questa scelta.

È pertanto probabile che, conclusa la fase degli interventi emergenziali, non si ripristini la situazione precedente, anche se l’entità del ruolo dei pubblici poteri e gli strumenti con cui verrà esercitato saranno diversi da paese a paese.  

Lo Stato francese, che già controlla Edf con una quota dell’84%, ha ufficialmente annunciato l’intenzione di ritornare al 100%, per aiutare un gruppo oggi messo in difficoltà non solo dalle norme governative che attualmente lo costringono a vendere energia a prezzi scontati, con una perdita quest’anno di 10,2 miliardi. Il calo della produzione (diversi impianti nucleari sono attualmente fuori servizio) ridurrà i profitti di 18,5 miliardi, cui si aggiungono i ritardi e gli sforamenti di budget per i nuovi impianti nucleari in Francia e in Gran Bretagna. Di conseguenza, il debito di Edf dovrebbe aumentare del 40% quest’anno, superando 61 miliardi.

La rinazionalizzazione di fatto di Edf, che consentirà di «rafforzare la sua capacità di portare avanti al più presto possibile progetti ambiziosi e indispensabili per il nostro futuro energetico», come ha annunciato la prima ministra Elisabeth Borne, è pertanto in linea con la consueta politica interventista dei governi francesi.

Avrà caratteristiche diverse l’intervento a favore di Uniper, che ha chiesto al governo tedesco misure di salvataggio, tra cui l’ingresso nell’azionariato della società, come prevede un emendamento alla legge sulla sicurezza energetica nazionale, presentato lo scorso 5 giugno.

Uniper nasce già sotto cattiva stella nel 2016, come “bad company”, a cui E.On, la principale utility elettrica tedesca ed europea, conferì la propria divisione carbone e gas, per porre rimedio al disastroso bilancio del 2015 (in rosso per 7 miliardi), in buona parte dovuto alla svalutazione delle centrali a carbone.  

Venduta nel 2018 al gruppo energetico finlandese Fortum, Uniper, con un portafoglio di volumi di gas per circa 400 TWh, provenienti da un contratto a lungo termine con Gazprom, sta oggi ricevendo soltanto il 40% del gas previsto. È quindi costretta a reperirlo altrove a prezzi ben più alti, che il governo non ha consentito di ribaltare sui prezzi. Si parla di perdite intorno ai 400 milioni per i primi sei mesi dell’anno in corso, con la previsione di arrivare a circa un miliardo al 31 dicembre.

Secondo il ministro dell’Economia Robert Habeck, l’eventuale ingresso dello Stato nell’azienda sarà temporaneo, anche se le incertezze sul futuro riassetto dei rapporti internazionali lasciano indeterminato il prolungamento di questa provvisorietà.

Per gli interventi imposti dalla guerra ibrida, al governo italiano è invece bastato attivare due dei tre grandi gruppi energetici presenti nel nostro paese, Eni e Snam, ma l’unica novità è il ruolo assunto dalla Snam con l’acquisto di due navi rigassificatori. Il ruolo, spesso autonomo, dell’Eni nella politica estera italiana è parte dell’imprinting dato alla società da Mattei (sostegno alla resistenza algerina, acquisto di petrolio dall’Urss in piena guerra fredda, accordo fifty-fifty coi paesi produttori di petrolio).

Per il suo intervento il governo italiano non ha avuto bisogno di inventare nulla di nuovo, perché disponeva già di due imprese che, grazie alla struttura del loro capitale sociale, hanno come socio di riferimento lo Stato, ma anche altri azionisti che le obbligano a operare con l’efficienza e la flessibilità di gruppi a controllo privato. Estendendo il confronto anche al terzo grande gruppo energetico (Enel), gli investitori istituzionali rappresentano il 50,4% del capitale Eni, il 50% di quello Snam, il 62,3% di quello Enel. Percentuali tutte così elevate e tra loro poco diverse non sono evidentemente il prodotto del caso, ma il risultato di una strategia nazionale finalizzata a stabilire condizioni ottimali di economia mista.

Il governo ha il potere di nomina dell’amministratore delegato, del presidente e di altri membri del CdA di Enel, Eni e Snam, ma per società quotate in Borsa il rischio che gli investitori istituzionali dirottino altrove i propri capitali, perché insoddisfatti della loro gestione, rappresenta un deterrente che pone limiti invalicabili all’ingerenza dell’azionista pubblico.  

Insomma, un equilibrio felice tra pubblico e privato, purtroppo non perseguito per la privatizzazione di Telecom, consegnata interamente nelle mani di “capitani coraggiosi”, che si sono limitati a goderne gli utili senza effettuare adeguati investimenti, provocando il declino di un gruppo tra i primi in Europa per capacità di innovazione.

Il modello Eni-Enel, ereditato da  Snam quando si è separata da Eni, è stato concepito quando al vertice delle istituzioni con ruoli diversi era presente Ciampi e al ministero del Tesoro incaricato delle privatizzazioni c’era Draghi. Quello Telecom è stato l’esempio forse più eclatante della mediocrità politica che ha caratterizzato il governo presieduto da D’Alema.