Il conflitto russo-ucraino ha radicalmente cambiato il panorama degli scambi internazionali di combustibili fossili. L’Unione Europea ha improvvisamente realizzato che il suo livello di dipendenza dal gas, dal petrolio e dal carbone proveniente dalla Russia è politicamente insostenibile, e incompatibile con la piena sovranità della sua politica estera. Sebbene la Russia non abbia inizialmente affatto minacciato l’interruzione delle forniture, è l’Unione Europea che si sta muovendo, seppure a fatica, nella direzione di ridurre drasticamente le importazioni di petrolio e gas russo, mentre le importazioni di carbone verranno interrotte a partire da agosto.
Se guardiamo alla sicurezza degli approvvigionamenti con un’ottica tradizionale, non si può dire che questa sia stata minacciata. Semplicemente, la prosecuzione dei flussi commerciali che hanno prevalso finora è politicamente inaccettabile alla luce del fatto che gli introiti legati alle vendite di petrolio e gas all’Europa costituiscono quasi la metà delle entrate di bilancio del Cremlino.
Questo risultato è dovuto non soltanto ai volumi scambiati, ma anche all’elevato livello dei prezzi, quest’ultimo che origina dalla forte ripresa economica dopo la pandemia, e precede lo scoppio della guerra. La formazione OPEC+, guidata da Arabia Saudita e Russia, ha reagito efficacemente alla drastica caduta della domanda nel primo semestre del 2020, riuscendo a ridurre la produzione in modo concordato e così consentendo un aumento dei prezzi. Si è confermato in questa situazione quanto era avvenuto anche in passato in analoghe circostanze: i paesi produttori sono capaci di accordarsi e agire in modo coordinato se confrontati con una forte caduta dei prezzi. In altre parole, l’OPEC, da sola o di concerto con i paesi non-OPEC più importanti, può difendere un livello minimo dei prezzi. Ma, in passato come oggi, è incapace di concordare e implementare un livello massimo, e finisce con lo spingere al rialzo i prezzi anche quando questi sono già elevati.
Nella situazione attuale, è ovvio che la Russia non ha alcun interesse a che gli altri paesi produttori aumentino l’output per contenere l’aumento dei prezzi. All’interno dell’OPEC, numerosi paesi stanno già producendo al massimo, e anch’essi non hanno interesse a che i prezzi vengano calmierati. Gli unici paesi che potrebbero fare la differenza sono l’Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, per i quali la questione si pone in termini eminentemente politici: da che parte stare?
È stato scritto – ed è un’analisi che condivido pienamente – che questa guerra è una difesa delle democrazie liberali contro le crescenti tendenze autoritarie in molti paesi del mondo. Putin ha esplicitamente articolato la sua convinzione che le democrazie liberali sono deboli ed incapaci di risolvere i loro problemi interni, e si è attivamente adoperato per sostenere le tendenze illiberali. Quasi tutti i paesi esportatori di petrolio e gas sono nelle mani di regimi autoritari, anche se non espansivi e revisionisti come la Russia di Putin. Le democrazie liberali trovano sempre più difficile accettare una situazione di dipendenza da paesi autoritari che seguono politiche contrarie a principi sanzionati da accordi internazionali, quali il rispetto dei diritti umani e la rinuncia all’uso della forza per la risoluzione dei conflitti.
A fronte del rincaro dei prezzi, gli Stati Uniti hanno fatto timidi passi per riallacciare il dialogo con il Venezuela, e hanno chiesto ai sauditi di aumentare la produzione, ma la richiesta non è venuta dal Presidente. Queste mosse sono state prontamente criticate dall’opinione pubblica. Analogamente nel nostro paese è stata criticata la ricerca di maggiori approvvigionamenti dall’Egitto, dall’Algeria, dal Congo.
Biden si rifiuta di incontrare Mohammed bin Salman, che ritiene responsabile della barbara uccisione di Jamal Khashoggi e dell’eliminazione di molti altri oppositori, come della catastrofe umanitaria dello Yemen. I rapporti con l’uomo forte degli Emirati, Mohammed bin Zayed, ora formalmente diventato Presidente della Federazione, sono migliori, ma non di molto. Sauditi ed emiratini sono oggettivamente alleati della Russia nel sostenere la repressione contro ogni tentativo di democratizzazione nel Medio Oriente e in Africa. Come la Russia, sono convinti che la domanda di petrolio e di gas continuerà ad essere elevata ancora per molti decenni, e in più sanno che i loro clienti saranno sempre più in Asia invece che in Europa o negli Stati Uniti. Tra i paesi del Golfo, il Qatar è l’unico ad avere un rapporto positivo con gli Stati Uniti e con molti paesi europei, pur con non poche ombre.
L’OPEC può contare sul probabile declino della produzione russa, che risente delle sanzioni occidentali sui trasferimenti di tecnologia messe in atto sin dall’occupazione della Crimea nel 2014, e ora delle nuove, più stringenti sanzioni a seguito dell’invasione dell’Ucraina. La Russia vedrà certamente le sue esportazioni verso l’Europa drasticamente ridotte, e non potrà facilmente ridirigere i flussi verso altri paesi. L’OPEC ne sarà inevitabilmente rafforzata.
Ma non è detto che questo significhi necessariamente che i prezzi rimarranno alti. La guerra e le spinte inflazionistiche, oltre agli strascichi della pandemia, aprono le porte ad un periodo di stagflazione. Quanto grave sarà la caduta della domanda dipenderà anche dalle scelte dei governi occidentali: se verranno prese le auspicabili misure per contenere lai consumi di petrolio e di gas, è possibile che le aspettative si invertano e i prezzi scendano anche prima dell’estate. In ogni caso, è prevedibile che rimangano sufficientemente alti per continuare a stimolare investimenti in fonti alternative, tanto di energia (rinnovabili, nucleare) che specificamente di petrolio e gas (riprende la crescita dello sfruttamento dei giacimenti non convenzionali in Nord America, si accelera la messa in produzione di giacimenti in Africa e America Latina).
In un contesto di crescente politicizzazione del commercio internazionale, in particolare di combustibili fossili, assisteremo alla simultanea distruzione di componenti tanto della domanda che dell’offerta, e a una redistribuzione degli investimenti. È probabile che emerga con maggior forza il triangolo Russia-Golfo-Cina, mentre le democrazie occidentali diventeranno sempre più critiche delle monarchie assolute del Golfo. I pochi paesi dell’OPEC che, come la Nigeria, sono governati da regimi democratici, già oggi sono poco legati alle decisioni dell’organizzazione, e lo saranno ancora meno.