Qual è il futuro delle reti locali del gas nella transizione energetica? Per le sue dimensioni, il sistema di tubi, cabine e contatori che porta il metano nelle nostre case, uffici, ospedali e Pmi sarebbe a pieno titolo uno dei giganti tra le infrastrutture energetiche nazionali. Forse troppo frammentato per accorgersene, però, vive da tempo una fase di stagnazione e disorientamento, anche a causa della disattenzione del decisore pubblico, che sembra ricordarsi che esiste solo quando la cronaca ce lo costringe. 

Una fase che sarebbe ora il momento di interrompere, operatori e policy maker, pensando o meglio ripensando quale si vuole sia la missione del settore negli anni a venire.

Il gas naturale, è utile ricordarlo, è oggi la prima fonte energetica in Italia, coprendo i due quinti dei consumi interni. Il 40% di tutto il gas consumato nel nostro Paese transita per le reti di distribuzione, che lo recapitano per ben oltre la metà (57%) agli usi domestici (cottura cibi, acqua calda, riscaldamento), un quarto alle imprese, un 15% circa al terziario e il resto (un 3%) ad ospedali ed altre utenze di servizio pubblico. 

Le reti locali del gas italiane si estendono per quasi 225mila km, oltre 6 volte la circonferenza della Terra e raggiungono oltre il 90% dei Comuni italiani per quasi 24 milioni di utenze.  Un’infrastruttura imponente e pervasiva quindi, figlia di decenni di investimenti privati e pubblici, che oggi è gestita in concessione da poco meno di 200 operatori della distribuzione, di cui un gruppo ridotto di meno di una trentina distribuisce da solo oltre l’80% dei volumi, mentre le altre 170 si dividono il resto.

Ci si è soffermati su questi numeri per evidenziare almeno due fatti. Primo, se da un lato è chiaro che nella prospettiva di completa decarbonizzazione delle nostre economie le fonti fossili dovranno per forza cedere progressivamente la scena a fonti a zero emissioni nette, ciò non avverrà in un battito di ciglia.

Rimpiazzare una filiera tanto estesa, oltre che pensata ab origine per soddisfare il carico termico annuale del settore civile, con soluzioni alternative ancora in fase embrionale (gas verdi) o finora non pensate per quello scopo (elettricità), non può essere una cosa breve e si deve quindi mettere in conto di aver bisogno delle reti gas ancora nel medio termine. Per questo però bisogna anche assicurarsi che restino pronte al compito.

Il secondo aspetto riguarda l’efficienza della transizione: anziché dare per scontato che essa significhi distruggere e ricostruire da zero – come nessuna grande trasformazione nella storia ha mai fatto – i non piccoli costi del passaggio a net zero imporrebbero di verificare prima se un’infrastruttura già realizzata e operativa come quella gas possa dare un contributo.

Insomma, da un lato si tratta di prendere atto che servirà ancora un interregno di quasi business as usual, a cui si deve essere pronti; dall’altro di ripensare l’attività nell’ottica della transizione, se si vuole che abbia un futuro. Governi e Parlamenti sono consapevoli del primo aspetto? E gli operatori sono pronti a confrontarsi col secondo? Su nessuno dei due fronti i segnali sono troppo chiari.

Di fatto il settore sembra oggi sospeso in un limbo. La foto dell’ultimo ventennio ci restituisce una riforma per il passaggio alle gare faticosamente elaborata in oltre dieci anni dopo il Dlgs 164/2000, ma rimasta inattuata; gran parte delle concessioni ormai scadute per legge da un decennio; azioni di lobby per sbloccare l’impasse che riescono solo a neutralizzarsi a vicenda; tentativi di mediazione degli uffici ministeriali sempre meno convinti e comunque depotenziati dal disinteresse dei ministri in carica.

Nel frattempo il mondo è cambiato. Nel 2015, ossia cinque anni dopo il decreto ambiti, c’è stata la Cop21 e dopo altri cinque l’agenda di Parigi è diventata il riferimento obbligato delle politiche energetiche europee. Dieci anni in cui il settore del gas locale è parso invece prigioniero di un sogno confuso di ciò che potrebbe essere, tra gare fantasma, una campagna di sostituzione contatori divenuti già obsoleti e una certa prosopopea della digitalizzazione che in questi giorni stride coi problemi di ben altro ordine portati alla luce dalla tragedia di Ravanusa.    

Serve un cambio di marcia, che prenda le mosse da un riconoscimento del contributo del settore al Paese, anche in prospettiva. Non solo quindi in termini di ridimensionamento, che pure sarà inevitabile, ma di rilancio, come anche alcune imprese e associazioni da qualche tempo stanno dicendo. L’integrazione settoriale gas-elettrico e i green gas, tra i capisaldi della nuova regolazione UE per la transizione, devono poter scendere fino al livello della distribuzione locale. 

Per farlo dovranno però trovare operatori pronti a trasformarli in business. È lecito chiedersi, come fa oggi Giampaolo Russo di Assogas, se un comparto frammentato in 194 player in gran parte medi e piccoli sia in grado di raccogliere la sfida. O se piuttosto legislatore e il regolatore non debbano favorire una nuova stagione di aggregazioni, sia con meccanismi incentivanti su cui l’Arera aveva pure cominciato a lavorare, sia attraverso il sistema delle gare.

I bandi per parte loro, per essere credibili in un contesto di transizione andranno aggiornati negli obiettivi, ad esempio premiando meno i nuovi sviluppi e più gli apporti di green gas, come produzioni di biometano, anche in sinergia con altri servizi locali dai rifiuti alla depurazione, integrazioni col sistema elettrico con mini impianti di storage, sensoristica contro i rischi idrogeologici etc. 

L’alternativa è continuare a raccontarsi che un giorno si faranno gare concepite in un altro secolo (e che non si faranno mai) e intanto tirare a campare finché si può, una trascuratezza da evitare per molte ragioni.