La raffinazione rappresenta un asset strategico per la sicurezza energetica di un Paese, specie per uno come l’Italia che dipende per circa il 90% del proprio fabbisogno energetico dalle fonti estere. Negli anni passati l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) ha elaborato un apposito modello per valutare il grado di sicurezza energetica di un Paese, denominato Moses (Model of Short Term Energy Security) che, nel caso dei prodotti petroliferi, teneva conto di una serie di indici, tra cui il rapporto deficit/surplus tra i diversi prodotti, indicando nel 45% la soglia critica oltre la quale si cominciava ad essere in un’area di rischio medio-alto.
Oggi in Italia ci sono 11 raffinerie e 2 bioraffinerie, di cui 6 nel Mezzogiorno, per una capacità complessiva di 87 milioni di tonnellate. Nel 2019 le lavorazioni sono state pari a 77 milioni di tonnellate (ridottesi notevolmente durante la pandemia e in parziale ripresa nel 2021), di cui circa il 60% benzina e gasolio, in grado di soddisfare pienamente la domanda interna e lasciare spazio ad esportazioni per un controvalore intorno ai 13 miliardi di euro, cioè il 96% dell’export di fonti energetiche. Prodotti che attualmente assicurano oltre il 92% del fabbisogno energetico nei trasporti e forniscono materie prime per la chimica e prodotti speciali per usi civili ed industriali. Un esempio di questa integrazione è il polo petrolchimico siciliano che nel triangolo Siracusa-Priolo-Augusta raggruppa oltre l’80% dell’occupazione manifatturiera della provincia e rappresenta lo 0,5% del Pil dell’isola, come si legge nel rapporto che accompagna la delibera regionale per il riconoscimento di “Area di crisi industriale complessa” a Siracusa presentato la scorsa settimana. In una simile realtà, anche la fermata di una sola attività produttiva del polo metterebbe “a rischio l’intero sistema produttivo di Siracusa, con effetti diretti e indiretti devastanti”, per usare le parole dell’Assessore alle Attività produttive, Mimmo Turano.
Impieghi prodotti petroliferi in altri settori nel 2019
Fonte: Unem
Ed il punto è proprio questo. Oggi tutta la raffinazione italiana si trova a fare i conti con una crisi che ne mette a rischio la sopravvivenza in tempi molto più brevi di quanto si possa immaginare. È un problema che non nasce certo oggi e che è stato ovviamente acuito dalla pandemia. Il risultato operativo lordo (Ebtida) del comparto è stato, infatti, negativo non solo nel 2020 per oltre 1 miliardo di euro, ma anche nel 2019 e nei primi sei mesi del 2021. L’attuale crisi non rientra, dunque, negli andamenti ciclici che hanno sempre caratterizzato l’attività di raffinazione, ma è sistemica.
Considerato che si tratta di un settore che rimarrà comunque strategico per garantire un approvvigionamento sicuro e economicamente sostenibile nei prossimi decenni - soprattutto durante tutto il corso della transizione senz’altro caratterizzata da forte instabilità, come ha peraltro evidenziato la recente emergenza sul costo delle materie prime - si pone il problema di come accompagnarlo “nell’ottica della transizione energetica e dello sviluppo sostenibile” (come si legge nel PNRR), tenendo ben presente la necessità di continuare ad assicurare il rifornimento del mercato a prezzi competitivi, minimizzare gli impatti occupazionali e i rischi ambientali connessi alla dismissione dei siti non adatti ai futuri sviluppi e al loro recupero.
Oggi il settore si trova davanti ad un bivio: o la crisi verrà superata portando avanti la necessaria modernizzazione e facendo evolvere la filiera del downstream petrolifero o l’intero comparto subirà una pesante e rapida involuzione strutturale, con gravi danni sulla sicurezza dell’approvvigionamento del Paese e sull’economia dei territori.
Vista la complessità della transizione, in Europa si è recentemente cominciato a discutere della crisi del settore e del suo contributo strategico, aprendo ai nuovi prodotti low carbon su cui il settore sta investendo; il riferimento è, ad esempio, ai biocarburanti che in Italia già rappresentano il 10% dei carburanti immessi in consumo - anche se, adottando un sistema di calcolo delle emissioni allo scarico la CO2 risparmiata in fase di produzione non viene conteggiata e ciò non permette di valorizzarli adeguatamente ai fini della decarbonizzazione dei trasporti; o ancora ai carburanti sintetici al centro dell’Alleanza dei Low Carbon and Renewable Fuels proposta dalla Commissaria europea per i Trasporti e la mobilità, Adina Valean.
Al contrario, i documenti di programmazione emanati dai vari Governi italiani (SEN, PNIEC, PNRR) negli ultimi tempi trattano solo marginalmente questi temi. Eppure, prendendo gli scenari predisposti da RSE per il PNIEC, la domanda di trasporti al 2030 sarà ancora coperta per almeno il 70% dai prodotti petroliferi e non avere più un’industria nazionale della raffinazione in grado di rispondere a questa domanda ci farebbe finire rapidamente nell’area rossa dell’indice Moses.
Questo perché il greggio è ormai una commodity che presenta un’ampia flessibilità di approvvigionamento (l’Italia, ad esempio, mediamente importa 70 tipi di greggio diversi da 24 Paesi), mentre i prodotti sono cosa diversa considerato che il baricentro della raffinazione si sta spostando verso aree dove i consumi sono in forte crescita (nei prossimi due decenni circa il 60% della raffinerie sarà concentrato in Asia, Medio Oriente e Russia) e perciò sarà sempre più difficile ottenerli nelle quantità e qualità richieste a prezzi competitivi.
Se si sceglie di rinunciare ad un asset così importante per la sicurezza energetica del Paese, perché le scelte politiche adottate sinora soprattutto a livello comunitario ci dicono questo, dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze e quello che sta accadendo sui mercati del gas e delle altre materie prime dovrebbe farci riflettere.