Nel momento in cui la pandemia ha allentato un po’ la sua presa, la domanda di energia ha ricominciato a correre. Secondo i dati dell’Agenzia internazionale per l’energia, nel 2021 a livello mondiale dovrebbe crescere del 4,6%, più che recuperando quanto perso nel 2020. Una stima ancora soggetta a qualche incertezza considerati i possibili effetti della cosiddetta variante “delta” ormai presente in oltre 120 Paesi nel mondo e già dominante in Europa, come hanno rilevato il Centro europeo prevenzione e controllo delle malattie (ECDC) e l'Organizzazione mondiale della Sanità (OMS).

Una domanda che cresce e crescerà soprattutto nelle cosiddette economie emergenti e in via di sviluppo - che in realtà ormai rappresentano una parte rilevante del Pil mondiale e prevalente delle attuali emissioni di CO2 – ancora soddisfatta per circa l’80% dai combustibili fossili, come del resto è accaduto negli ultimi 30 anni.

Peso % CO2 per aree

Fonte: BP -  Statistical review of world energy 2021

A cambiare, rispetto al passato, sono solo i rapporti tra le diverse fonti: il petrolio perde qualche punto percentuale pur confermando il suo primato, mentre gas e carbone guadagnano qualcosa, altrettanto le rinnovabili, sostanzialmente stabile il nucleare. Il petrolio è dominante nei trasporti dove copre oltre il 90% della domanda, gas e carbone – uniche fonti a tornare già quest’anno sui livelli pre-Covid - in quello della generazione di energia elettrica con una quota di circa il 60%, insieme alle rinnovabili con circa il 30% che, però, per oltre la metà sono idroelettrico e solo per il 9% eolico e fotovoltaico.

Fonte: Aie - WEO 2020

Il modo in cui viene prodotta l’energia di cui abbiamo bisogno è un tema rilevante e dovrebbe essere il primo dei problemi da affrontare sulla via della decarbonizzazione, che non può essere eluso ricorrendo a facili slogan sui benefici di una totale elettrificazione dei consumi.

Prima di preoccuparci su come consumare qualcosa che ancora non c’è, dovremmo capire come aumentare il peso delle rinnovabili nella generazione elettrica visto che ci sono Paesi come Cina e India, cioè quasi 3 miliardi di persone con consumi elettrici che sono quasi 4 volte quelli dell’Europa (e 30 volte quelli dell’Italia), che la producono rispettivamente per il 61% e il 72% usando ancora il carbone (fonte: WEO 2020) e che non intendono rinunciarci visto che ne hanno bisogno per alimentare le loro legittime aspettative di crescita.

Lo hanno detto chiaramente, insieme ad altri Paesi, al G20 dei Ministri dell’Ambiente che si è tenuto di recente a Napoli, mettendo il veto alla proposta di inserire una data certa per il phase out del carbone e lo stop ai finanziamenti internazionali, costringendo così a rinviare la decisione al G20 dei Capi di Stato in programma per fine ottobre.

Non dobbiamo poi dimenticare che il fenomeno della povertà energetica è ben lontano dall’essere debellato e non è solo un problema delle aree più povere del mondo. Stando all’ultimo rapporto dell’Oipe, alla fine del 2019 vi erano infatti in Italia 2,2 milioni di famiglie in povertà energetica (8,5% del totale), un numero in lieve riduzione rispetto all’anno precedente, ma con numerose famiglie in difficoltà nel sostenere le spese per la fornitura elettrica o il riscaldamento e altre voci essenziali, quali cibo o medicine.

In discussione non sono gli impegni di Parigi che hanno come obiettivo finale la decarbonizzazione al 2050, ma l’accelerazione che soprattutto l’Europa sta cercando di imprimere ad un processo i cui costi sono incerti così come chi pagherà il conto finale che si preannuncia salato.

Lo stesso Ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che ha svolto il ruolo di anfitrione in occasione del G20, ha più volte ricordato che la “transizione potrebbe essere un bagno di sangue” sottolineando in occasione di una recente intervista a La Stampa che “per cambiare il nostro sistema e ridurre il suo impatto ambientale bisogna fare cambiamenti radicali che hanno un prezzo. Di conseguenza dovremo far pagare molto la CO2 con conseguenze, ad esempio sulla bolletta elettrica”. Ancora più duro è stato l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, che in una intervista al mensile Tempi ha detto senza mezzi termini che se Bruxelles si ostinerà a portare avanti il suo Green Deal in modo radicale senza che le altre potenze facciano lo stesso, sarà una catastrofe economica per l'Europa e senza che l'ambiente ne benefici in alcun modo”.

Con il pacchetto “Fit for 55” varato recentemente dalla Commissione europea questo rischio si fa ancora più concreto perché, nei fatti, senza una correzione di rotta si innescherà un inevitabile processo di deindustralizzazione e delocalizzazione di filiere industriali strategiche per la sicurezza energetica dell’Europa. Come ha detto sempre Descalzi nell’intervista a Tempi “sarebbe meglio chiudere tutte le raffinerie per non pagare l’Ets e comprare i prodotti all’estero”.

L’urgenza di raggiungere gli sfidanti obiettivi ambientali renderebbe necessario avvalersi di tutte le opzioni tecnologiche disponibili, poiché ciò consentirebbe di accelerare la decarbonizzazione e dunque di mettere in sicurezza il raggiungimento di target che sarebbero altrimenti assai difficilmente conseguibili. Invece, l’Europa ha sinora preferito adottare un approccio per molti versi ideologico che tende ad escludere determinate tecnologie e privilegiandone altre a prescindere dai reali benefici ambientali. E per usare ancora le parole del Ministro Cingolani “il peggior nemico in questo momento di transizione ecologica sono le ideologie”.

E se le cose stanno così, allora verrebbe da ripetere le parole di Swigert Jr., pilota dell’Apollo 13 nella sfortunata missione del 1970: “Okay Houston, abbiamo un problema”.