A Napoli, per la prima volta nella storia dei G20, clima ed energia sono stati protagonisti allo stesso tavolo. Segno che, finalmente, l’interconnessione tra questi due mondi è riconosciuta e considerata cruciale per affrontare la transizione. I lavori si sono aperti con le condoglianze ai delegati di Germania e Olanda per le vittime delle alluvioni: altro segnale positivo sulla maturazione culturale da parte di tutti i Paesi riuniti, che rappresentano circa due terzi delle emissioni globali, l’80% del PIL mondiale e il 60% della popolazione.
Eppure, nonostante il cauto ottimismo iniziale, il Financial Times lo ha definito “a hard-fought summit”, un incontro combattuto duramente, arrivato più volte sull’orlo della disgregazione, in cui, ancora una volta, sono venute a galla le divergenze tra sistemi economici e politici profondamente differenti. A dimostrazione di quanto siano stati complicati i colloqui, i negoziati sono proseguiti per tutta la notte di giovedì e il testo del comunicato finale è stato pubblicato solo domenica, un giorno e mezzo dopo il previsto. In sintesi, sono stati sottoscritti 58 punti su 60: un ottimo risultato sulla carta, se non fosse che i due elementi mancanti sono sostanziali. Il primo riguarda l’innalzamento del livello di ambizione: mantenere l’aumento delle temperature sotto il grado e mezzo. Il secondo concerne il phase-out del carbone e dei sussidi alle fonti fossili.
Questi due punti hanno visto un “disallineamento” di alcuni Paesi, per usare le parole del Ministro Cingolani: Cina, India, Russia e Arabia Saudita non se la sono sentita di andare oltre gli impegni (volontari) di Parigi, rimanendo ancora legati ad un modello economico fortemente basato sui combustibili fossili. Per questo ci sentiamo di parlare di fallimento, giacché l’obiettivo dichiarato dell’incontro era proprio “accelerating the clean energy transitions” rispetto all’Accordo di Parigi. Ma questa accelerazione avrebbe dovuto avvenire, come ribadito per ben 16 volte nel comunicato finale “in light of the different national circumstances”. E le diverse circostanze nazionali non hanno permesso di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Ecco quindi che, nella vana rincorsa dell’unanimità, l’ennesimo esercizio di negoziazione che si conclude con dichiarazioni e non con azioni: i paesi “riconoscono”, “riaffermano”, “ricordano”, “sottolineano” in una estenuante melina senza mai passare la palla in attacco.
Proprio in concomitanza con il G20 di Napoli, Bloomberg ha pubblicato un rapporto in cui analizza i progressi dei Paesi del G20 in 3 ambiti prioritari per la transizione energetica: sussidi ai combustibili fossili, carbon pricing e disclosure sui rischi climatici. Secondo il report, nei 4 anni successivi all’accordo di Parigi, i paesi membri del G20 hanno versato cumulativamente più di 3,3 trilioni di dollari in sussidi per combustibili fossili. Ai prezzi attuali, una somma del genere avrebbe potuto finanziare 4232 GW di potenza fotovoltaica, pari a 3 volte e mezza la rete elettrica degli Stati Uniti. Ovviamente, anche in questo caso vanno fatte alcune distinzioni tra paesi: tra il 2015 e il 2019 l’Australia ha aumentato i sussidi alle fonti fossili del 48%, il Canada del 40% e gli Stati Uniti del 37%. Tra I paesi più virtuosi, il Regno Unito li ha ridotti del 18%, l’Italia del 33% e l’Arabia Saudita del 50%. Circa la metà del totale dei sussidi fa capo a soli quattro paesi: Cina, India, Russia e Arabia Saudita (gli stessi che a Napoli erano disallineati). Declinando però i dati in termini di sussidi pro-capite, al primo posto troviamo Arabia Saudita, Argentina, Russia, Canada e Francia. Sebbene la misurazione dei sussidi di questo tipo sia complicata e discussa da anni, i dati di questo rapporto lanciano un messaggio piuttosto chiaro.
Ricordiamo che, nel 2009, il G20 riunito a Pittsburgh concordò sulla cessazione dei sussidi “inefficienti” alle fonti fossili, senza definire cosa si intendesse con questo aggettivo: dopo oltre un decennio è evidente che la decisione non ha portato i risultati attesi e stiamo tristemente dibattendo gli stessi temi.
Ancora una volta, i dati ci mettono di fronte ad una realtà difficile da accettare: il passo della transizione energetica è terribilmente lento e i tentativi di accelerare questo processo sembrano cadere nel vuoto. Ma soprattutto ritorna ancora più forte la dicotomia tra Nord e Sud del mondo, la difficoltà di declinare il principio di “responsabilità comune ma differenziata” che da sempre accompagna il negoziato sul clima. In tutta sincerità, possiamo biasimare i paesi che a Napoli si sono tirati indietro dal firmare l’addio alle fonti fossili, quando i loro sistemi elettrici dipendono per il 60-70% da quelle materie prime? I dati ci dicono che l’economia mondiale - non solo quella di Cina e India - continua ad essere intrinsecamente carbonica (si vedano i dati sull’intensità carbonica della domanda di energia, invariata da decenni); inoltre, l’esperienza dei gilet gialli in Francia nel 2018 ha dimostrato come, anche in Europa, non esistano su questi temi decisioni politiche facili e indolore. “Sappiamo bene che la transizione ecologica non è un pranzo di gala, ma non abbiamo alternative che lavorare insieme in un’unica direzione, senza lasciare indietro nessuno” le parole del Ministro Cingolani, nella loro semplicità, racchiudono tutta la complessità della questione climatica: serve avere tutti a bordo perché non è una sfida tra buoni e cattivi, ma una lotta contro il tempo.
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