Uno degli obbiettivi del PNRR e più in generale della transizione verde e del programma europeo “Fit for 55” è esplicitamente la sostenibilità sociale.  Bisognerà allora che prima o poi qualcuno si metta a fare di conto seriamente. Fino ad oggi non è andata esattamente così. La transizione verso le fonti rinnovabili, per esempio, ha già comportato aggravi sulla bolletta degli italiani di circa 15 miliardi all’anno per un totale che ammonterà a fine corsa, e senza i nuovi incentivi probabilmente in arrivo, a oltre 250 miliardi di euro. Portato su scala europea, il costo si aggira intorno ai 1.000 miliardi.  Inoltre, per evitare di penalizzare troppo la competitività delle grandi imprese che già subiscono un costo dell’energia molto alto in Italia, la componente della bolletta nota come oneri di sistema è finita per gravare sostanzialmente sulle famiglie e sulle piccolissime imprese. Con effetti dal punto di vista fiscale chiaramente regressivi, dal momento che pagano di più, in proporzione, i ceti meno abbienti.

La questione non è di poco conto, come vedremo. Per il momento basta segnalare come fenomeni di questo genere abbiano già prodotto tensioni sociali non indifferenti. La rivolta dei gilet gialli in Francia, una ferita profondissima nel tessuto sociale francese, ebbe inizio da un ventilato aumento dell’accisa sul gasolio e tutti sappiamo che la vittoria di Trump alle elezioni americane fu dovuta anche al supporto di larghe parti della classe operaia, che si sentivano minacciate dalla transizione energetica.

Un caso interessante, in Italia, è quello dei SAD, i cosiddetti sussidi ambientalmente dannosi, che andrebbero, secondo alcuni, eliminati. Il più importante per dimensioni sarebbe costituito dalla minore imposizione fiscale sul gasolio rispetto alla benzina. Attenzione: una minore imposizione non un incentivo esplicito. Tale minore imposizione favorirebbe il gasolio che si vuole invece penalizzare. Ci sono due soluzioni semplici per questo problema. Diminuire l’accisa sulla benzina, equiparandola a quella sul gasolio, oppure aumentare di poco quella sul gasolio e diminuire di poco quella sulla benzina e in questo modo allinearle. Invece la soluzione caldeggiata è (ovviamente) solo quella di aumentare l’accisa sul gasolio, andando a colpire interi settori economici, tutto il mondo del traporto merci, già attaccato dalla concorrenza dei bassissimi prezzi del gasolio nei paesi dell’Europa dell’Est e i possessori di auto diesel. Il che nell’attuale congiuntura economica non sarebbe proprio una mossa intelligente.

La UE sta ragionando sull’introduzione di una tassa sulla plastica per finanziare le ingenti spese del suo bilancio relative al Recovery. Allo stesso modo sempre la UE ragiona sulla possibilità di introdurre un’imposta di confine per i prodotti importati in EU con alto contenuto di carbonio. Ambedue queste imposte produrranno un aumento del prezzo dei beni finali con effetti regressivi dal punto di vista fiscale.

Se poi guardiamo ad una serie di politiche di incentivazione messe in campo negli ultimi anni la sensazione di una visione distorta che finisce per penalizzare i ceti più deboli si rafforza. Non credo che le periferie romane, palermitane o milanesi abbiano goduto degli incentivi per i monopattini o le biciclette elettriche. Quelli per l’auto elettrica poi premiano chiaramente, ameno per il momento,  chi può permettersi una seconda auto e magari dispone anche di un garage dove ricaricarla.  Se anche i ricchi devono piangere direi che qui se la ridono felicemente mentre nelle ZTL si fa festa.

Un altro quadrante di dimensioni importanti riguarda quel che può succedere in quella sterminata parte del mondo dove abita la maggioranza della popolazione: Asia e Africa. In quei continenti il deficit energetico è ancora molto forte. Circa 1 miliardo di persone è privo di elettricità e dove c’è i consumi procapite sono comunque largamente al di sotto di quelli USA e UE. Questi paesi sono diventati o stanno diventando i più grandi emettitori di gas climalteranti. Nel presente e in termini assoluti. Ma se si guardano altri due indici, vale a dire la provenienza delle emissioni già accumulate in atmosfera e la produzione di gas procapite attuale si intravede tutt’altra prospettiva. I gas accumulati appartengono per più del 50% a USA, UE e Giappone che contano per meno del 20% della popolazione mondiale e le emissioni procapite, con alcune differenze, sono bel al di sotto di quelle USA e UE. Si pone quindi un gigantesco problema di giustizia sociale fra aree del mondo. E’ impensabile coprire il deficit energetico di questi Paesi con il ricorso alle sole energie rinnovabili. Avranno bisogno dei fossili per ancora un lungo periodo. La decisone di molti fondi di investimento e investitori istituzionali di non finanziare più la triade maledetta - carbone, gas, petrolio - può avere due conseguenze. Condannare quei paesi ad una prolungata povertà energetica o regalarli dal punto di vista geopolitico a potenze, come la Cina, che quei finanziamenti sono disposti a concedere.

Per concludere: la transizione ecologica viene troppo spesso raccontata come una meravigliosa corsa verso il futuro priva di controindicazioni. Ma nessun pasto è gratis. Se non, forse, quelli ottenuti da importanti salti tecnologici che mettono a disposizione dell’umanità tecnologie che consento forti incrementi di produttività.  Capire chi pagherà questi costi è di fondamentale importanza per mitigarli ed evitare bruschi cambiamenti di direzione di fronte a prevedibili fenomeni di protesta mano a mano che possibili conseguenze negative saranno avvertite o, visti i tempi, anche solo percepite.