Lo scorso 13 aprile il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani hanno incontrato a Palazzo Chigi il presidente e a.d. di Stellantis John Elkann e gli amministratori delegati di Eni Claudio Descalzi, di Enel Francesco Starace, di Snam Marco Alverà e di Terna Stefano Donnarumma. All’ordine del giorno della riunione i “temi legati all'energia e alla transizione ecologica”, si leggeva nel comunicato diffuso a valle dell’incontro. Incontro che era stato preceduto da altri due a marzo, questa volta al ministero della Transizione ecologica: uno il 15 marzo con gli stessi a.d. e il capo di gabinetto di Cingolani, Roberto Cerreto; il secondo il 25 marzo, con Francesco Venturini al posto di Starace e la partecipazione anche del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Enrico Giovannini. Il menu del primo incontro recitava “Incontro su tematiche della transizione ecologica”, quello del secondo “Incontro su energia e trasporti”.
Sfogliare l’agenda degli incontri del ministro Cingolani in questi primi tre mesi alla guida del Mite dà un’idea del cammino che ha portato alla definizione del Piano di ripresa, gettando un po’ di luce su un percorso complesso. Leggendo si percepisce l’entità della sfida di tenere insieme la necessità di concentrare una fetta rilevante degli interventi nella categoria “transizione ecologica”, assicurando al contempo che le risorse avessero un impatto sul tessuto industriale nazionale. E individuando di conseguenza un’importante cinghia di trasmissione nelle società partecipate.
La prima a essere ricevuta al Mite è stata Enel, che in tutto ha avuto quattro incontri con l’entourage di Cingolani; Stellantis è stata ascoltata tre volte; tanti gli incontri sulla mobilità del futuro e sui carburanti, con Bosch, Mercedes, Assopetroli, Toyota, e poi Anfia, Alis, Api, le associazioni dei benzinai.
Nei suoi interventi pubblici Cingolani ha sempre sottolineato la complessità e la gradualità della transizione. Complessità e gradualità che richiedono un apporto di competenze per cui è praticamente indispensabile ricorrere alle risorse delle partecipate. Che d’altronde si sono già abbondantemente mosse sulla strada della transizione: solo per fare alcuni esempi, Stellantis con i progetti per l'auto elettrica e quello che sarà il più grande impianto V2G al mondo a Mirafiori, Eni con bioraffinerie, efficienza, rinnovabili e biometano, Enel su reti, rinnovabili e mobilità elettrica, Snam su idrogeno e biometano, Terna con i progetti di integrazione di rinnovabili e accumuli nella rete di trasmissione.
Per quanto il compito della transizione sia immane e per quanto l’Europa si appresti ad alzare di nuovo l’asticella con il pacchetto Fit for 55 del prossimo luglio, non bisogna dimenticare che l’Italia i compiti a casa li ha fatti, nonostante la lentezza degli iter e i problemi burocratici che si trascina appresso da tempo. Come per il bilancio statale, anche sotto il profilo dell’azione per il clima l’Italia può vantare un “avanzo primario” da diversi anni.
La pandemia ha messo in secondo piano il “giro di boa” delle politiche climatiche avvenuto nel 2020, anno di riferimento del pacchetto UE 20-20-20. Ebbene, già nel 2018 l’Italia aveva ridotto le emissioni di gas serra del 22% rispetto al 1990, livello rimasto pressoché costante dal 2013 in poi. Il nostro Paese è nel gruppo di testa sia per le emissioni assolute che per quelle pro capite che per unità di Pil.
Quanto alle rinnovabili, l’Italia è l'unico dei maggiori Paesi europei (e l'unico dei Paesi fondatori dell’Unione) ad aver raggiunto e superato gli obiettivi sulle rinnovabili al 2020, con il 18% e passa sui consumi finali già nel 2019, rispetto a un obiettivo del 17%. Sono invece ben 13 i Paesi che al 2019 non avevano ancora raggiunto gli obiettivi: non solo la Polonia (12% di Fer sui consumi finali rispetto a un obiettivo del 15%), ma anche la Francia (17% rispetto al 23%), l’Irlanda (12% rispetto al 16%), i Paesi Bassi (9% rispetto al 14%), il Belgio (10% rispetto al 13%), la Spagna (18% rispetto al 20%) e la Germania, anche se di poco (17% contro 18%).
La transizione ha sicuramente bisogno di spinte ulteriori, ma non bisogna dimenticare lo sforzo fatto. E bisogna concentrarsi sulla possibilità di raggiungere gli obiettivi senza dover fare a pezzi il nostro tessuto industriale. Il rischio, altrimenti, è che il “lavoro sporco” (necessario e prezioso) di dare energia a buon mercato al mondo, finirà per farlo chi ha standard – ambientali e sociali – ben inferiori a quelli richiesti in Italia e in Europa.