Il 13 febbraio 2021 è nato il Ministero della Transizione Ecologica (MITE), ex Ministero dell’Ambiente a cui sono state aggiunte competenze che prima erano appannaggio del Ministero dello Sviluppo Economico (capitolo energia), infrastrutture e trasporti (mobilità e incentivi) e dell’Agricoltura (biocombustibili). Nelle intenzioni del governo Draghi, il MITE rappresenterebbe la chiave per la realizzazione dell’European Green Deal, un indirizzo politico volto a rendere l'Europa il primo continente a zero emissioni di CO2 entro il 2050.
Le difficoltà che l’Unione Europea e i vari Ministeri adibiti alla transizione dovranno affrontare sono difficili da nascondere. Vanno anzitutto considerate quelle economiche; il piano dell’Unione Europea, approvato a gennaio 2020, prevede di mobilitare almeno mille miliardi di euro di investimenti sostenibili nell’arco dei prossimi dieci anni. Ciò non vuol dire, però, che l’Unione spenderà in prima persona l’intera cifra. Dal bilancio dell’Ue per il settennato 2021-2027 si stima l’arrivo di circa 503 miliardi di dollari. La Commissione, infatti, ha proposto di destinare il 25% del proprio bilancio (meno di 40 miliardi di euro l’anno) a una serie di programmi che in un modo o nell’altro risultino funzionali al Green Deal europeo.
Ci sono poi gli scogli derivanti dall’analisi costi-benefici climatici del Green Deal: l'Europa contribuisce per poco meno di 4 miliardi di tonnellate alle emissioni globali. Ciò rappresenta solo il 9/10% delle emissioni globali. Eppure, negli anni, l’Europa ha raggiunto una consistente riduzione delle emissioni. Se confrontiamo, infatti, l’anno 2000 con il 2019, il calo delle emissioni è lampante: da 4 miliardi di tonnellate nel 2000, si è passati a 3,3 nel 2019.
La domanda da porsi è quali sono le ragioni da attribuire a questo declino. Anche se non sono disponibili analisi complete, potrebbero essere identificate quattro ragioni principali:
1) Le politiche climatiche definite a livello europeo.
2) La penetrazione delle rinnovabili nel settore dell’energia elettrica.
3) Il cambiamento del mix di produzione da settori ad alto tenore di carbonio (industria) a settori a basse emissioni di carbonio.
4) Il miglioramento dell’efficienza nei settori di utilizzo.
Una quinta ragione, identificata tra gli altri da Alberto Clò, va ricercata nella bassa crescita economica, nella riduzione della base manifatturiera e nel conseguente crollo delle attività economiche in diversi paesi.
Il legame risulta chiaro prendendo ad esempio proprio l’Italia, che ha visto una riduzione delle emissioni di circa un quarto dal 2007, con l'occupazione nel manifatturiero ridotta di 650.000 unità. A questi fattori che hanno contribuito alla riduzione delle emissioni se ne contrappone uno generalmente ignorato: le emissioni integrate nei prodotti importati. Questo consiste nel trasferimento delle attività manifatturiere in paesi con limiti di emissione inferiori ma anche con maggiore intensità di carbonio per unità di produzione; il fenomeno prende il nome di “Carbon Leakage”. Se è vero, quindi, che l'Unione Europea è stata in grado di raggiungere l'obiettivo di riduzione del 20% fissato per il 2020 in anticipo, è altrettanto vero che se si tenesse conto delle emissioni importate la riduzione sarebbe (e di molto) inferiore.
Ciò che dovrà riuscire ad ottenere il Ministero per la Transizione Ecologica è una decarbonizzazione entro il 2050 che rappresenti una possibilità di crescita piuttosto che un “taglio alle gambe” delle attività economiche. E a questo punto, la domanda sorge spontanea: si può realmente realizzare? La preoccupazione che il risultato del Green Deal possa registrare un fallimento, sugli obiettivi preposti, deriva dal fatto che, secondo molti analisti, il Green Deal, così come si presenta, non sembra poi così nuovo. Nel 2000, infatti, il Programma europeo per il cambiamento climatico ha affermato che "l'Unione europea è impegnata da tempo nella lotta al cambiamento climatico a livello internazionale" e che "sente la responsabilità di essere un esempio con politiche e passi chiari", presupponendo quindi una sorta di “effetto imitazione” che l’Unione Europea avrebbe potuto innescare nel resto del mondo. La medesima premessa è rappresentata nel Green Deal Europeo, ma, se analizziamo i numeri dal 2000 al 2018, si rileva come nel 2000 furono emesse 23 miliardi di tonnellate di CO2 nel mondo, mentre nel 2019, più di 33; considerando la riduzione delle emissioni da parte dell’Unione Europea, bisogna quindi convenire sul fatto che l’aumento di emissioni da parte del resto del mondo successivo al Programma europeo per il cambiamento climatico sia di quasi 18 volte maggiore rispetto alla riduzione conseguita dall’UE.
La condizione più trascurata dall'Accordo di Parigi e dal Green Deal europeo, e su cui il Ministero della Transizione Ecologica non potrà permettersi di soprassedere, è che ogni intervento utile alla riduzione delle emissioni ha un evidente costo monetario. Anche non considerando gli impatti ambientali e paesaggistici che pure si pongono con la penetrazione massiccia delle rinnovabili elettriche intermittenti e aderendo all'ipotesi che le risorse monetarie siano sostenibili in un quadro di compatibilità macroeconomica e giustificabili in un'ottica globale nel confronto tra costi e benefici, resta il discorso su "chi paga veramente". In altre parole, non è sufficiente che ciò che viene speso abbia piena giustificazione economica o anche una base etica se non è in grado di garantire la redditività per chi impiega il denaro.
La domanda, secondo molti, non dovrebbe essere in che misura o in quale arco di tempo sia fattibile una transizione energetica ma, piuttosto, come dovrebbe essere governata per garantire che il nuovo, non ancora maturo, non prenda il posto del vecchio in un momento sbagliato o in un modo sbagliato, senza quindi lasciare tutto al gioco dei mercati o al connubio di politiche nazionali distaccate e scoordinate. In uno scenario simile, è ancora più chiaro che fino a quando le tecnologie non avranno raggiunto un livello di maturità tale da superare, ad esempio, i limiti tecnici delle nuove rinnovabili (intermittenza, bassa densità energetica, alti costi…), vecchio e nuovo devono, almeno, coesistere.
Infatti, la decarbonizzazione richiederà la sostituzione dell'intero capitale sociale esistente sia dal lato dell'offerta che della domanda di energia. Affermare il contrario è una delle cause dei fallimenti dei precedenti accordi sul clima. Dire come stanno le cose, superare la visione politicamente corretta e sostituire l'analisi dei fatti alle emozioni è un prerequisito necessario per acquisire il consenso necessario nell'opinione pubblica su cui cadranno i costi della transizione energetica.