Il Canale di Suez ha un secolo e mezzo di vita. Quindi, come tutte le opere dell’uomo, ha mutato nel tempo tanto la sua funzione, quanto la sua collocazione nell’immaginario collettivo. Del resto, un vecchio proverbio francese non ammonisce forse: tout casse, tout passe, tout lasse…? Così, solo il pandemonio generato dal recente incaglio della mastodontica “Ever Given”, avvenuto a circa un miglio dopo l’accesso attraverso la Bocca Sud, ha reso di dominio pubblico che questa via d’acqua artificiale è ormai un’arteria fondamentale per il traffico svolto a mezzo di navi portacontenitori ancor più che per quello coinvolgente le petroliere.
E, inoltre, che il Canale non è neppure la principale rotta critica del commercio mondiale. Lo scettro glielo ha tolto ormai da anni lo Stretto di Malacca: un tratto marino che separa l'isola di Sumatra dalla penisola malese e che offre la rotta più breve tra l’oceano Indiano e l’Asia Orientale (il principale fulcro manifatturiero globale, comprendendo in primis Cina, Giappone e Corea del Sud). In tutta onestà, se si guarda l’entità del naviglio coinvolto, non c’è neppur partita tra Suez e lo Stretto di Malacca, visto che del primo si avvalgono annualmente circa 19.000 navi, mentre lungo il secondo ogni anno transitano mediamente ben 100.000 navi. Né il quadro muta granché qualora si faccia zoom sulla frazione del traffico marittimo mondiale convogliata annualmente attraverso queste due vie d’acqua: dal Canale passa complessivamente circa il 12% del carico internazionalmente movimentato, mentre l’insieme delle navi che s’inoltrano nello Stretto di Malacca ha a bordo cargo più o meno equivalente al 40% dell’interscambio mondiale via mare. In più, transitare dallo Stretto di Malacca é rischioso, poiché in alcuni tratti esso ha una profondità minima di circa 25 metri e nei pressi di Singapore un’ampiezza di soli 2,8 km. Davvero, non molti, considerato che l’avanzamento in quel tratto di mare spesso è reso difficoltoso sia dalla scarsa visibilità provocata dall'intenso fumo generato dagli incendi che frequentemente si verificano sull'isola di Sumatra, sia dalle insidie dei pirati, sia – infine, e soprattutto - dall'intensità del traffico: in media circa 12 navi/ora contestualmente presenti. Non è, dunque, un caso se l’utilizzo di questo chokepoint è consentito solo alle cosiddette Malaccamax. Cioè, alle navi non eccedenti i 470 metri di lunghezza, i 60 di larghezza e i 20 di pescaggio.
Di conseguenza, gli scafi che superano una di queste dimensioni per trasferirsi dall'oceano Indiano al Pacifico (o viceversa) debbono affrontare un maggior numero di giorni di navigazione. Peraltro, gli stessi vincoli (salvo quello relativo alla lunghezza della nave) vigono pure per l’attraversamento dell’istmo di Suez, dopo che quasi un lustro fa sono stati ultimati dei giganteschi ammodernamenti di quest’autentica cash cow egiziana. Diversamente, l’enorme flusso di box che giornalmente pendola per mare tra l’Asia Orientale e i paesi tributari dell’Atlantico o del Mediterraneo non potrebbe avvalersi al meglio delle economiche megaportacontenitori aventi l’imponente capacità di carico della “Ever Given”. Dunque, le Malaccamax coincidono con le Suezmax? Nient’affatto. Le Suezmax sono le petroliere aventi una taglia idonea al transito dal Canale a pieno carico; sono le cosiddette one milliom barrels, visto che una tanker progettata per poter sistemare nelle proprie cisterne una tale quantità d’olio minerale in genere contiene il proprio pescaggio entro i limiti fissati dalla Canal Authority. Però, non è mai tutto oro quel che luce. Innanzitutto, non sono molte le Suezmax che utilizzano il Canale, giacché nel tempo l’evoluzione dell’interscambio petrolifero via mare ha finito per offrire a questa taglia di cisterna tantissimi impieghi alternativi. Secondariamente, nel mondo vi sono circa 7.000 tanker idonee al traffico internazionale e al cabotaggio significativo di greggio e prodotti petroliferi, ma ammontano a solo poco più di 2.500 le navi impegnabili nel traffico di crude oil. E se 1/4 di quest’ultime è costituito da Suezmax, ben 1/3 è rappresentato dalle cosiddette VLCC (le cisterne la cui capacità è doppia rispetto a quella d’una Suezmax), oltre che dalle poche unità di taglia ancor più robusta (note come ULCC). Però, tutto questo tonnellaggio eccedente la stazza delle Suezmax può transitare dal Canale unicamente quando viaggia in zavorra. Infine, ormai da tempo tra il terminal di Ain Sokhna posto al top del Mar Rosso e l'offshore di Sidi Kerir in Mediterraneo corre un oleodotto – denominato Sumed - utilizzabile per il trasporto d’oro nero.
Perché allora sorprendersi, se oramai il Canale di Suez non é più la giugulare del traffico cisterniero mondiale? Certo, un tempo lo era, ma quando l’infrastruttura fu costruita il petrolio era utilizzato unicamente quale lubrificante o illuminante e in pratica solo dai paesi che l’avevano nel sottosuolo, se attrezzati per estrarlo. Del resto, la prima cisterna a vapore costruita in acciaio – la “Zorastro” – fu messa in acqua nel 1878 e non per navigare in oceano, ma per trasportare a malapena 240 tonnellate di cherosene tra la Svezia e il Mar Caspio (attraverso Baltico, laghi, canali e Volga).
Dunque, perché l’istmo fu tagliato? Fondamentalmente, per abbreviare di parecchio la lunga navigazione necessaria ai velieri per andare dal Nord Europa all’India o addirittura in Pacifico, anche se l’opera non fu un’iniziativa dei britannici (i più interessati), bensì dei francesi, che in essa misero il know-how ingegneristico e il capitale, lasciando nelle mani del kedivè (cioè, del viceré d’Egitto, allora parte dell’impero ottomano) un robusto pacchetto delle azioni della società destinata a gestire il Canale in contropartita della concessione. Va pure detto che Londra, diffidando di Parigi, fece di tutto per osteggiare il taglio dell’istmo, sebbene Napoleone III affermasse d’aver dato il là a un’impresa puramente commerciale. Paradossalmente, quest’opera - per l’epoca davvero ingegneristicamente colossale - trovò il suo maggior cantore nel padre della poesia americana: Walt Whitman, in un certo senso l'inventore del verso libero. Infatti, Whitman in “A passage to India” espresse grande ottimismo verso il futuro, intravvedendo nella più o meno contestuale realizzazione del Canale, della ferrovia transcontinentale statunitense e nella posa del primo cavo atlantico la benevolenza divina verso l’uso della scienza per la creazione d’un forte legame tra occidente ed oriente.
Per chi guarda il mondo con realismo, Whitman fu alquanto avventato. Del resto, mezzo secolo dopo lo scrittore britannico E.M. Forster - con un romanzo provocatoriamente di pari titolo - fece luce su quanta xenofobia reciproca vi fosse in India fra colonizzati e colonizzatori ancora nei primi decenni del XX secolo. E ci volle molto meno tempo per far sì che il Canale provocasse metaforicamente due importanti vittime: la navigazione a vela e quanti in esso avevano investito. Il fatto è che nella seconda metà dell’Ottocento la puntuale osservanza degli orari nel servizio di navigazione (il grande plus offerto dal tonnellaggio spinto dal vapore) era ritenuta una qualità premiante per l’attraversamento dell’Atlantico, ma non per una serie di ragioni – ad esempio – nei collegamenti tra l’Europa e l’Asia Orientale, che dunque restavano preda delle navi a vela. A quest’ultime, però, per esigenze pratiche non fu consentito l’utilizzo del Canale. Insomma, fu inferto un knockout commerciale a scafi che in termini di velocità erano imbattibili, potendo – grazie alla loro possente velatura – raggiungere anche i 22 nodi. Una performance più che doppia rispetto a un mezzo a vapore. Quanto agli investitori francesi, va detto che i britannici ci misero poco a comprendere che per essi il Canale era una manna, anziché un guaio, e che quindi a Londra conveniva averlo in pugno. Così con un colpo da maestro, facilitato dalle difficoltà in cui si trovava la Francia dopo che Bismarck aveva spazzato via Napoleone III, nel 1875 il governo di Benjamin Disraeli acquistò la quota in mano al kedivè e ottenne il controllo parziale sul Canale. Poi, il Regno Unito nel 1882 occupò militarmente l'Egitto e de facto divenne il dominus dell’infrastruttura (sia pur con il vincolo di garantire il libero transito del naviglio in tempo di pace e di guerra).
Comunque, occorse ancora oltre una sessantina d’anni prima che Suez e l’oro nero divenissero una solidissima accoppiata. Perché? Perché il Medio Oriente entrò nel business petrolifero solo nel XX secolo; prima tramite l’Iran e poi, dopo la Grande Guerra, tramite l’Iraq. Però, la capacità estrattiva di questi due paesi generò una potenziale eccedenza d’oro nero. Così, nel 1928 le principali compagnie, beneficiando d’essere partner d’un oligopolio, s’impegnarono tra di esse a stabilizzare il prezzo del barile su un livello compatibile con l’onere di produzione dei campi più costosi: quelli nordamericani. Con quali risvolti di medaglia? Innanzitutto, che - essendo all’epoca gli Stati Uniti il motore della domanda d’olio minerale - le raffinerie mondiali accentuarono la loro focalizzazione nell’area del Golfo del Messico. Secondariamente, che cadde ogni incentivo a spingere l’estrazione in Medio Oriente. Ecco perché negli anni ’30 l’Iran e l’Iraq insieme fornivano appena il 5% della produzione petrolifera mondiale. Se a ciò si aggiunge che in quel decennio fu costruito un oleodotto per portare il greggio iracheno in Mediterraneo, si capisce subito quanto poco contasse il petrolio per il Canale fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, nulla resta fermo sotto il sole.
Così negli anni ’30 qualche estrazione prese corpo anche in Kuwait e in Bahrein, scatenando gli appetiti dell’Arabia Saudita, la quale all’epoca era ancora totalmente legata ai business della pastorizia nomade e dell’allevamento dei cammelli, sebbene il suo sovrano – Ibn Saud – volesse assolutamente trarre ricchezza dall’oro nero che pensava d’avere nel suo sottosuolo. Un desiderio non facile da realizzare per lui, anche se nel 1938 a Dahran venne scoperto un immenso giacimento e già l’anno dopo una petroliera prese il largo da Ras Tanura. Perché? Perché molti oil man mentre s’addensavano i tuoni di guerra ritenevano che, dati i livelli di consumo, non fosse il caso di spingere la produzione mondiale d’oro nero. E così la pensava anche Washington, tanto più che gli Stati Uniti di greggio ne avevano moltissimo in casa. Solo sul finire del conflitto il quadro cambiò, giacché F.D. Roosevelt subito dopo Yalta concluse ch’era un azzardo lasciare in mani altrui praticamente l’intera produzione petrolifera al di fuori del continente americano. Per le maggiori compagnie statunitensi quel mutamento d’indirizzo equivalse a un enrichissez vous! Infatti, esse fecero diventare il crude oil saudita uno dei più grandi affari del mondo. Come? Incentivando la produzione di Dahran (visto che un giacimento, una volta attivato, deve pompare a spron battuto per rendere molto) e definendo nel ’49 un nuovo meccanismo di prezzo per far sì che l’intera Europa estranea alla “cortina di ferro” s’agganciasse al grezzo mediorientale. Un autentico Bonanza per il Medio Oriente. Tanto più che nel frattempo avevano preso a estrarre anche alcuni suoi staterelli e sceiccati affacciati sul Golfo e che la parte occidentale del Vecchio Continente stava aprendo le braccia alle major.
Infatti, i suoi impianti industriali e le sue centrali termiche non solo crescevano per il boom economico del dopoguerra, ma in più lasciavano il carbone per l’olio combustibile. On va sans dire, tutto questo fu anche, eccome, Bonanza per il Canale di Suez. Talché, sebbene fosse stato realizzato un grande oleodotto per portare in Mediterraneo parte del crude oil saudita, nel 1954 l’infrastruttura fu ristrutturata per elevare – venendo incontro alle prime avvisaglie del gigantismo navale - la taglia massima delle tanker transitanti, la quale giunse a 32.000 tonnellate di portata lorda. Ma poco dopo l’Egitto buttò le carte all’aria. Lo guidava Nasser, un leader senza fame d’oro per sé stesso, ma pronto a tutto pur di veder crescere il peso internazionale ed economico del suo paese. Così, avendo le casse statali pressoché vuote, Nasser chiese a Washington di finanziargli un’opera – la diga di Assuan – da tutti indicata come la soluzione più conveniente per far fare un vantaggioso balzo alla produzione agricola ed elettrica dell’Egitto. Domandò denaro, però senza accettare di legarsi politicamente le mani. Anzi, invece di presentarsi con il cappello in mano, per intimorire si fece avanti con il bastone in mano. Cioè brigando contro un’iniziativa britannica mirata a bloccare le mire mediorientali sovietiche. Tuttavia, non riuscì a intimorire la Casa Bianca, che a sua volta alzò la voce. Ovvero, negò il placet al finanziamento d’Assuan. La risposta di Nasser non fu un’andata a Canossa, bensì la nazionalizzazione del Canale, ch’era una proprietà anglo-francese, e la richiesta del ritiro delle truppe britanniche presenti sul territorio egiziano. Una sfida senza precedenti, alla quale comunque il Regno Unito abbozzò, ma con la volpe sotto l’ascella. Infatti, si mise rapidamente d’accordo con i francesi (che detestavano Nasser, poiché sosteneva la rivolta algerina) e con gli israeliani (che odiavano il rais, poiché si stava organizzando per distruggerli). Così, pochi mesi dopo i paracadutisti anglo-francesi e le truppe israeliane attaccarono il Canale. Per Londra, Parigi e Tel Aviv quell’impresa militarmente fu un successo, politicamente fu un disastro, poiché gli Stati Uniti non stettero al gioco. Washington, infatti, non accettò di essere stata messa in difficoltà in Medio Oriente, né l’affronto di essere stata tenuta all’oscuro dai suoi principali partner europei. Pertanto, costrinse i loro leader a gettare la spugna. In più, fecero crollare la sterlina, ritenendo Londra la principale responsabile del pasticcio nel quale malgré soi s’era trovata invischiata. La conseguenza di quella debacle anglo-francese fu, tra l’altro, che nell’autunno 1956 tanto i prezzi di molte merci importate, quanto i noli andarono alle stelle, poiché gli egiziani per render difficile la vita a chi li aveva attaccati avevano bloccato il Canale affondandovi delle navi e obbligato il mondo a scoprire di non aver abbastanza tonnellaggio per trasportare lungo rotte alternative tutto ciò che usualmente attingeva all’estero. In particolare, salirono a candela le quotazioni del barile (anche perché i siriani, per solidarietà con l’Egitto, chiusero la pipeline trasportante i greggio saudita in Mediterraneo) e i noli. Del resto, un round trip Ras Tanura/Sud Europa richiede 40 giorni di navigazione aggiuntiva, se la tanker viaggia a 14 nodi e batte la rotta del Capo di Buona Speranza, anziché utilizzare il Canale. Né la situazione muta granché nel caso delle merci varie, che all’epoca non viaggiavano in container, ma liberamente sistemate in navi da circa 9.500 tonnellate di portata lorda che procedevano più o meno a 15-16 nodi. Infatti, una tal nave per effettuare un round trip Bombay/Nord Mediterraneo impiega circa 32 giorni in più, se obbligata a rinunziare al Canale. Inoltre, l’allungamento d’un round trip non incide solo sulle spese gravanti su ogni giorno d’utilizzo della nave, ma anche sul consumo di combustibile, il quale dipende a sua volta dal tipo di propulsione impiegata. E a metà degli anni ’50 molte tanker erano delle turbonavi. Cioè, scafi dal consumo giornaliero molto più elevato d’una motocisterna di pari taglia. Sta di fatto che nel novembre 1956 gli Stati Uniti bloccarono rapidamente la crisi innescata dal colpo di mano anglo-franco-israeliano, ma poi a Eisenhower occorse un bel po’ di tempo e un bel po’ di denaro per ottenere da Nasser il ripristino del Canale, che poco dopo essere tornato operativo fu messo in condizione d’accogliere le petroliere da 45.000 tonnellate di portata lorda e che nel 1967, all’epoca della sua seconda chiusura, già poteva ricevere le cisterne da 65.000 tonnellate di portata lorda.
Perché questi ampliamenti? Perché questa seconda chiusura? Alla radice di quest’ultima vi fu nuovamente l’avventatezza di Nasser, che per assicurarsi la leadership del mondo arabo incrociò metaforicamente la spada con la dinastia saudita, la quale - non potendo essa, custode dei luoghi sacri dell’islamismo, lasciar che si diffondesse tra i sunniti la visione laica con la quale al Cairo si guardava al Corano) e non avendo convenienza che Nasser prendesse troppo spago - rispose pan per focaccia. Facendo cosa? Minando il piedistallo politico sul quale stava Nasser. Ovvero, agendo in modo che le truppe egiziane collezionassero brutte figure nello Yemen (dove il rais le aveva inviate per dare a esse modo di conquistare una nuova dignità dopo lo slump del ’56) e accusando Il Cairo d’eccessiva prudenza verso gli israeliani, per dipingere il rais all’opinione pubblica come una tigre di carta. Così, Nasser per salvare la faccia tirò la corda allo spasmo con Tel Aviv. Solo che questa reagì con “la guerra dei sei giorni”, al termine della quale gli israeliani si trovarono in mano la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est e le alture del Golan, mentre il mondo dovette arrangiarsi fino al 1975 senza la possibilità di transitare dal Canale. Un po’ perché questo era bloccato da navi, mine e detriti e un po’ perché mancava la volontà internazionale di risolvere la questione. Almeno fin quando la guerra dello Yom Kippur, con le sue alterne vicende, offrì agli Stati Uniti l'opportunità di spingere l'Egitto fuori dall'influenza sovietica. Infatti, una delle conseguenze del cambio di fronte egiziano fu l’avvio d’opere massicce nel Canale, tali da renderlo nel 1980, per quanto riguarda le tanker, accessibile a pieno carico alle one milliom barrels e alle VLCC in zavorra. Come visse il mondo marittimo negli anni in cui fu impossibile alle navi transitare per l’istmo di Suez? Molto meglio che durante la crisi del ’56. Perché? Perché quella crisi prese lo shipping in contropiede, sebbene già nel 1951 un armatore americano lungimirante, quale fu D.K. Ludwig, avesse intuito che l’oil business aveva bisogno di sfruttare la legge delle economie di scala anche nel caso del tonnellaggio. Cosicché Ludwig aveva affittato per 10 anni il gigantesco bacino che prima della guerra a Kure era stato messo a disposizione delle grandi corazzate nipponiche e lì aveva preso a realizzare delle supertanker, come allora erano denominate le petroliere eccedenti le 28.000 tonnellate di portata lorda (la taglia top all’epoca vigente per Suez). Navi che altrove non potevano ancora essere costruite. Comunque, nel novembre del 1956 – sebbene anche qualche altro armatore si fosse messo sulla scia del gigantismo navale - esistevano solo 160 supertanker. In più, una larga parte dell’olio minerale viaggiava via mare nella forma di prodotto distillato, poiché le raffinerie erano prevalentemente installate presso i giacimenti petroliferi. E una product tanker non ha mai la capacità d’una crude tanker. Invece, un decennio dopo il quadro era mutato. Innanzitutto, perché - essendo divenuta anche l’Europa (come in parte il Giappone) un grosso consumatore di prodotti petroliferi – risultava conveniente lavorare il greggio non presso il giacimento, ma al mercato. Cioè, in prossimità degli utilizzatori. Secondariamente, perché - essendo esplosi i consumi - i quantitativi di crude oil da esportare annualmente erano cresciuti tantissimo e di pari passo s’era innalzata la capacità delle raffinerie, sicché era conveniente e fattibile approvvigionare gli impianti con lotti robusti. Inoltre, perche più è elevata la taglia della nave e la distanza da percorrere, più cala il costo di trasporto d’una tonnellata di grezzo. Per dare un’idea, nel 1966 si valutava che, nell’ambito delle supertanker, tra l’uso d’una cisterna da 65.000 tonnellate di portata lorda (la size massima transitabile all’epoca da Suez) e quello d’una petroliera di capacità doppia vi fosse una riduzione del costo da sostenere per muovere la stessa tonnellata di greggio dal Kuwait a Rotterdam pari a circa 1/3, pur battendo la nave più capace la rotta del Capo di Buona Speranza. Infine, perché la crescente instabilità politica del Medio Oriente suggeriva alle compagnie petrolifere il “mordi e fuggi”. Cioè, investire in quell’area nella ricerca e nella produzione, ma non nell’installazione d’impianti per non porre troppo denaro in zone a rischio.
Donde la corsa al gigantismo navale e il parziale disinteresse dell’oil business per Suez. Ormai, in media le tanker che transitano dal Canale complessivamente trasportano ogni anno un pò più di 100 milioni di tonnellate di crude oil. Un quantitativo che è pressoché equamente suddiviso tra gli spostamenti da nord a sud e quelli da sud a nord, ma che soprattutto costituisce un traffico pari all’incirca ad appena il 5% dell’intera movimentazione mondiale via mare di greggio. Peraltro, la citata quantità non si discosta molto da quella che emerge puntando lo zoom sull’altra faccia dell’oro nero: i distillati ottenuti dalla sua raffinazione (gasolio, benzina, nafta, ecc.). Né muta granché la ripartizione tra i carichi provenienti dal Mar Rosso e quelli in uscita dal Mar Mediterraneo di questi oltre 100 milioni di tonnellate di oil product, se dei lubrificanti, della benzina e via dicendo si fa degli ogni erba un fascio. L’unica vera differenza è che, se si guarda all’insieme delle spedizioni via mare di olio minerale raffinato, il Canale ha un peso maggiore, ma non certo sconvolgente, rispetto al caso del crude oil. Comunque, di fronte a questi numeri perché sorprendersi se a poco a poco il transito dall’istmo di Suez è divenuto la giugulare del traffico marittimo a mezzo container? Come detto, tout casse, tout passe, tout lasse…