Produrre acciaio con idrogeno in modo sostenibile non vuol dire solo cambiare tecnologia, ma cambiare il modo di fare impresa siderurgica. Si tratta di un cambio culturale nei rapporti con il territorio in cui l’azienda opera. Questo è possibile grazie ad una peculiarità dell’idrogeno che lo avvicina all’elettricità: l’idrogeno è di chi lo fa!

Aziende come l’ex Ilva di Taranto sono figlie di una concezione per cui una grande azienda poteva essere insediata in un territorio “qualunque”: attorno si sarebbero costruite le relazioni e le infrastrutture per far “girare” quell’impresa a prescindere dalla realtà, le risorse e le specificità del territorio stesso. A distanza di anni il modello si è rivelato non sostenibile: quelle aziende sono apparse come aliene e mai veramente integrate nelle comunità.

L’energia per produrre acciaio in un altoforno è oggi fornita dal carbone che, bruciando, fonde il minerale di ferro per trasformarlo in ghisa liquida. Passare all’idrogeno vuol dire sostituire il carbone all’interno dell’altoforno: il vantaggio è eliminare tutto l’inquinamento legato al ciclo del combustibile fossile (polveri, diossine, anidride carbonica…). Ma avere l’idrogeno sostenibile, o verde, significa produrlo il più possibile localmente e da energia rinnovabile, ovvero da risorse locali. Qui entrano in gioco i luoghi, le comunità e le relazioni del territorio in cui si trova l’acciaieria.

A Taranto, il minerale di ferro continuerebbe ad arrivare da lontano, ma almeno l’altro “ingrediente” dovrebbe arrivare dal territorio circostante, entro un raggio di 120-150 km dall’impianto, prodotto senza emissioni da tante fonti rinnovabili diverse.

Ciò spinge a leggere e comprendere le potenzialità di quel territorio e a confrontarle con le esigenze dell’acciaieria, dialogando con tanti portatori di interesse locali e trovando una “formula” in cui tutti ottengono un vantaggio. Ciò spinge a creare un sistema positivo e duraturo, che dia origine ad un nuovo accordo per sostenere una singola azienda.

Questo sembra essere il vero grande lavoro in atto da anni in quei siti europei dove sono in costruzione gli altoforni che sostituiranno il carbone con l’idrogeno: in Svezia, con il progetto Hybrit di SSAB, e in Germania, con il progetto di ThyssenKrupp.

In entrambi i casi ci sono accordi con fornitori di energia elettrica in cui è prevista la possibilità di sfruttare fonti rinnovabili dei territori per produrre l’idrogeno in loco, con la costruzione di interessi locali diffusi.  Un cambio di cultura aziendale, oltre che di tecnologia. Tutto abilitato da un vettore energetico straordinariamente adattabile e flessibile.

Nel caso di Taranto non si tratta semplicemente di capire quanto costa e se si possono riconvertire uno o più altoforni a idrogeno: il vero problema è capire se su un territorio di circa 150 km attorno a Taranto ci sono risorse per produrre idrogeno da fonti rinnovabili (eolico, biogas, fotovoltaico), se le comunità di quell’area ne trarranno giovamento, se si creerà nuova ricchezza economica, ma anche conoscenza, responsabilità sociale, interazione umana. Se quel territorio sarà in grado di sostenere nei prossimi 30 anni un nuovo sistema siderurgico a idrogeno rinnovabile, e a quali condizioni vorrà farlo. Questi i tavoli che oggi si dovrebbero aprire per non condannare Taranto a diventare una nuova Bagnoli, per impedire che ancora una volta quel territorio veda calare dall’alto soluzioni aliene che difficilmente a quel punto potranno portare vantaggi duraturi e diffusi (base di vero sviluppo). Insomma per evitare che l’idrogeno di domani diventi il carbone di ieri.

Bisogna fare in modo che gli indubbi vantaggi ambientali dell’idrogeno siano accompagnati dal coinvolgimento del territorio, arrivando a definire un territorio-azienda in grado di sfruttare i vantaggi associati a questa tecnologia per risolvere problemi più ampi – per l’appunto su scala territoriale - e non solo quelli che riguardano l’altoforno.

Nel concreto, ad esempio, l’idrogeno dovrebbe arrivare in grande parte dall’eolico offshore (come sta accadendo nel Mar del Nord): grandi impianti anche galleggianti, a distanza sufficiente dalle coste (20-40 miglia) per evitare l’impatto visivo sul capitale turistico della costa adriatica e ionica della Puglia. Questo vuol dire coinvolgere porti, gasdotti, la filiera dell’eolico pugliese, competenze in materia di pianificazione territoriale, nonché il mondo della finanza, della politica e degli enti locali. E se l’idrogeno locale non bastasse, si dovrebbe farlo arrivare via nave, come già in sperimentazione in Giappone, o via gasdotto.

In Svezia questo sistema è stato avviato nel 2016; nel 2018 hanno iniziato a costruire il prototipo di altoforno ad idrogeno che partirà nel 2021; fino al 2035 si faranno test sull’impianto dimostrativo e dal 2040 la nuova tecnologia verrà applicata su scala commerciale. I tempi della corsa all’acciaio ad idrogeno sono fissati. Tra qualche anno si capirà se la siderurgia sarà solo una partita per il nord o anche per il sud dell’Europa. Conoscenze e sviluppo tecnologico non si improvvisano: ora è il momento di costruire relazioni e preparare la strada. Strumenti come il “Tecnopolo del Mediterraneo”, il centro di ricerca con sede a Taranto, che sta muovendo i suoi primi passi, potrebbero servire a recuperare il tempo passato e anticipare il futuro, guardando non solo all’altoforno, ma a tutto il territorio-azienda.