L’Iran è sotto embargo e quasi in guerra. In Libia è guerra civile. E siccome entrambi ci vengono tramandati come grandi produttori di petrolio, la nostra sicurezza (energetica) vacilla. O almeno questa è la narrazione corrente. Lasciamola ai media, che la realtà è un poco più articolata.

L’Iran, per cominciare. E’ arrivato ad esportare, nel 2018, fino a tre milioni di barili/giorno. Post sanzioni, la stima corrente è che al meglio ne esporti 350.000. In un anno sono spariti dal mercato (quasi) 3 milioni di b/g. Grosso modo il 3% della produzione mondiale; ma anche quasi l’8% del petrolio venduto sul mercato internazionale. Eppure il prezzo non ha praticamente fatto un plissé. Il bello del tempo dell’abbondanza è che puoi far sparire un produttore senza che nessuno ti mandi il conto a casa.

Qualche sana cautela. E dunque possiamo vivere tranquilli, e cullati da un mercato liquido ed abbondante? Qui qualche cautela. Del 3% scomparso dal mercato mondiale non si è accorto nessuno; ma dei 60/70 miliardi di dollari perciò scomparsi dal bilancio iraniano si sono accorti, e dolorosamente, tutti gli iraniani. Le guerre, contrariamente al divulgato, non si fanno per il petrolio; ma può accadere che si facciano per il controllo della rendita petrolifera. Se un produttore vive di rendita, togliendogliela gli togli i soldi della sua spesa sociale; in pratica gli tagli pensioni e ospedali e, via esasperazione sociale, lo accompagni verso la destabilizzazione. Le sanzioni americane all’Iran sono quindi esempio di scuola.

Perché prendersela con l’Arabia Saudita? C’è però un rovescio della medaglia. Se tu non lo destabilizzassi, il produttore non ti metterebbe mai a rischio l’approvvigionamento (poi c’è stata qualche mente acuta, vedi Chavez, che ci ha provato; ma è girata subito in farsa). Il suo bisogno di rendita è tale che ha perso la libertà di non vendere. Se però gli togli la rendita prima di destabilizzarsi magari reagisce. E la reazione più naturale è di cercare di rendere il proprio petrolio di nuovo indispensabile provando a distruggere quello altrui; ed il modo più efficace consiste nella messa fuori uso dell’infrastruttura petrolifera concorrente. L’attacco con droni del centro olio saudita diventa a sua volta esempio di scuola.

Lezione iraniana. Nessun produttore è indispensabile. La rendita per alcuni produttori invece lo è. Creando instabilità poni la premessa per una reazione. La reazione può concretizzarsi nell’aggressione degli impianti altrui. Se l’aggressione è seria e di successo qualche tema di sicurezza dell’approvvigionamento può infine porlo. La sicurezza dell’approvvigionamento, in definitiva, non più funzione della capacità produttiva, ma funzione della sicurezza dell’infrastruttura che deve trattare e trasportare la produzione.

Adesso la Libia. Che tutti dicono sia energeticamente strategica e prioritaria; e però si dimenticano di spiegarci perché. Loro a fine dell’anno scorso esportavano grosso modo un milione di barili/giorno; insomma un terzo dell’export iraniano dei tempi d’oro. Però noi “dipenderemmo” da loro per oltre il 12% delle nostre importazioni correnti (2019) di greggio (comunque, poco più di 100.000 b/g). Ma che significa “dipendere”? Morto un greggio non se ne può fare un altro? Certo, deve avere caratteristiche petrofisiche affini (ogni greggio è bello a raffineria sua e la destinazione di un carico la decidono, appunto, le raffinerie, e non le Cancellerie); ma in tempi di abbondanza e liquidità trovare greggi fungibili, e tra l’altro per approvvigionarne volumi modesti, non dovrebbe essere impresa difficile. E’ già successo. Fine di Gheddafi e (in pratica) fine temporanea dell’export di greggio o quasi. Scenari a mezzo stampa di tregenda energetica italiana. Il nostro sistema di raffinazione si mise poi quietamente ad acquistare greggio azero (ma la notizia non conquistò la prima pagina), l’Azerbaijan divenne (temporaneamente) il nostro primo fornitore, e nessuno si trovò a patire per il greggio libico scomparso. Cosa ci fosse di “strategico” francamente mi sfugge.

Obiezione. C’è il gas, e ci sono gli interessi strategico-nazionali dell’Eni. Uno alla volta. Il gas dei giacimenti che alimentano il gasdotto o arriva qui o semplicemente non lo esportano. Il tubo girevole ancora non lo hanno inventato; e perciò un gasdotto crea un matrimonio indissolubile tra un giacimento e un mercato. Insomma se non arriva qui non può di massima che essere ancora una volta per un problema di sicurezza dell’infrastruttura. Se poi malauguratamente succedesse (come già è storicamente successo) dovremmo anche qui riuscire a cavarcela con gas sostitutivi (che col gas non c’è neanche da affrontare la rigidità del sistema di raffinazione). Dalla Russia c’è ancora posto; gli impianti di rigassificazione si sono messi a funzionare, e altro. Poi se capita tutto senza preavviso qualche disagio è più che possibile; ma l’assideramento invernale non pare prospettiva concreta.

Infine l’Eni. Che però non si capisce bene dove stia il problema. Dicesi che la competizione diplomatica francese miri a scalzare l’Eni in favore di Total. Ma riuscite a pensare nel 2020 ad un Produttore così folle da “espropriare” l’Eni e a reintestare il tutto ad un’altra società petrolifera; e/o ad una società petrolifera occidentale così oltre qualunque regola da accettare il dono? Se volete convincermi che gli interessi dell’Eni in Libia possano essere a rischio me la dovete raccontare meglio. Poi non c’è dubbio che quelli dell’Eni siano interessi importanti; ma non tutto ciò che è importante è anche per definizione strategico.

Lezione libica. Al netto dei temi infrastrutturali, nell’età dell’abbondanza, più un mercato (e qui il riferimento è a quello europeo) è liquido e diversificato e più diventa difficile trovare qualcosa cui attaccare l’etichetta di “strategico”. Nell’età dell’abbondanza, però. E l’abbondanza o, se volete fare i tecnici, il tendenziale eccesso dell’offerta è frutto di impressionanti investimenti in esplorazione, sviluppo, produzione ed infrastruttura. Oggi questi investimenti sono sospettati di crimini contro il pianeta; e probabilmente sono pure colpevoli. Osservo però che non possiamo farne a meno da domattina. Oggi la quota fossile della nostra energia primaria è all’81%; lo scenario IEA di Sustainable Development (quello cioè più “decarbonizzato”) modellizza per il 2030 una riduzione del 10% dei consumi di petrolio e un lieve aumento di quelli di gas, mentre gli altri scenari ipotizzano un aumento in volume di entrambi; e se non continuiamo ad investire per rimpiazzare almeno in parte quello che stiamo consumando rischiamo di transire dall’abbondanza alla scarsità e persino di riscoprire la dimensione dello “strategico”.

Una seria minaccia alla nostra sicurezza energetica è più facile cha abbia radici nell’abbandono dell’investire che non in instabilità locali.

E questa minaccia, se volete, possiamo chiamarla strategica.