La Cina è stata praticamente per tutto il corso della storia dell’umanità il Paese più popoloso e per lunghi tratti una delle economie più importanti e avanzate. Eppure, ancora oggi, il resto del mondo non sembra del tutto pronto ad accettare la potenza cinese, come dimostra la guerra commerciale che contrappone il gigante asiatico agli Stati Uniti di Donald Trump. La ragione è che, per la gran parte della storia recente, la Cina – nonostante il suo peso demografico – è stata ai margini della grande geopolitica globale: prima il lento declino dell’impero, poi la semi colonizzazione europea, successivamente la nascita della Repubblica presto segnata da una profonda guerra civile, sino ad arrivare alla Repubblica Popolare, caratterizzata da una sorta di autarchia che ha tenuto il Paese lontano dai grandi giochi geopolitici sino alla fase di riforme introdotte da Deng Xiaoping. Nell’ultimo decennio, poi, l’attivismo economico e geopolitico si è intensificato nettamente, sino ad arrivare nel 2013 al lancio della Belt and Road Initiative (BRI), nota in Italia come Via della Seta, che presuppone ingenti investimenti delle imprese cinesi nelle infrastrutture dei Paesi europei.

Il processo di integrazione dell’economia cinese nel contesto globale è però minacciato dalla guerra dei dazi che vede contrapposte Cina e Stati Uniti: come noto, nel gennaio 2018 sono stati implementati dazi del 25% su 50 miliardi di dollari di merci cinesi a cui si sono aggiunti, nel settembre del 2018, dazi del 10% su ulteriori 200 miliardi di dollari. La percentuale di questo secondo round di dazi è poi salita al 25% a partire dal 10 maggio 2019.

In attesa della possibile evoluzione, la domanda, naturalmente, è quanto questi dazi possano incidere sull’economia reale. Prendiamo, ad esempio un mercato chiave come quello energetico, che ancora è stato toccato solo marginalmente dalla contrapposizione tra i due colossi mondiali, ma che vista la sua importanza potrebbe avere delle conseguenze importanti che esulano dai confini della Repubblica Popolare.

La Cina, come buona parte dei Paesi in via di Sviluppo, se da un lato, deve soddisfare la sua crescente domanda energetica – a sua volta spinta dall’accresciuta urbanizzazione – d’altro, deve cercare in qualche modo di attutirne le conseguenze ambientali, che già hanno colpito in maniera pesante Pechino e i principali centri urbani.

Secondo un rapporto recentemente diffuso dall’Unep, nel decennio in corso (2010-2019) la Cina è stata di gran lunga il principale investitore globale in nuova capacità da fonti rinnovabili, tanto da impegnare ben 758 miliardi di dollari tra il 2010 e la prima metà del 2019, una somma decisamente più alta di quella spesa dagli USA (356 miliardi di dollari) e dal Giappone (202 miliardi di dollari). Con il tredicesimo piano quinquennale approvato nel 2016, in materia di innovazione tecnologica energetica, la Cina si è fissata l’obiettivo di aumentare ulteriormente la produzione di energie green entro il 2020, puntando a produrre il 50% della sua energia da fonti rinnovabili entro il 2030, limitando, così il consumo delle fonti fossili.

L’incredibile paradosso è che, pur essendo l’attore numero uno al mondo nelle fonti pulite – con una posizione di leadership anche da un punto di vista della produzione delle relative tecnologie – la Cina resta comunque di gran lunga il principale emettitore globale di gas a effetto serra. Nell’ultimo biennio la produzione di CO2 del gigante asiatico ha ripreso a crescere, mentre la corsa agli investimenti nel solare e nell’eolico ha bruscamente rallentato, per effetto di alcune modifiche ai sistemi di incentivazione. Modifiche che hanno avuto una ripercussione immediata anche a livello globale, facendo segnare, nel 2018 e per la prima volta, il segno meno agli investimenti globali in energie pulite. La tensione commerciale tra Usa e Cina rischia di acuire questa tendenza e di complicare ulteriormente la corsa alla decarbonizzazione di Pechino, che a sua volta è cruciale nell’ottica di un contenimento globale del climate change. La prima considerazione da fare è che le politiche di decarbonizzazione sono costose, dunque sono nettamente più semplici da attuare in un momento di buona crescita economica, che invece le turbolenze commerciali tra due superpotenze di queste dimensioni mettono a duro rischio.

Oltre ai già citati investimenti nelle rinnovabili, la trade war apre un’incognita sulla transizione cinese a quella che è la fonte fossile meno inquinante, il gas: la previsione dell’Agenzia internazionale per l’Energia era che la Cina avrebbe soddisfatto la sua fame energetica con il gas naturale, in particolare ricorrendo alle importazione di GNL, in buona parte di provenienza americana. Tuttavia, il proseguimento della guerra tariffaria potrebbe così avere l’effetto di scoraggiare questo import, ributtando il dragone nelle braccia del più economico carbone, di cui Pechino possiede ingenti riserve. Le stesse industrie cinesi, al di là della produzione energetica, potrebbero decidere di posticipare la propria riconversione green, in assenza di prospettive economiche certe e senza un appoggio esplicito da parte del Governo.

Più a livello globale, poi, come abbiamo messo in luce in un precedente articolo, la decrescita dei prezzi della tecnologia fotovoltaica ed eolica, a sua volta cruciale per l’avanzata delle energie alternative, potrebbe essere rallentata dal perdurare delle tensioni geopolitiche tra le due superpotenze.