La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, più volte minacciata negli ultimi mesi, è definitivamente esplosa nei giorni scorsi, con l'operatività da parte americana di dazi al 25% sull'import di ben 818 beni, per un valore stimato in 34 miliardi di dollari. A poche ore di distanza è scattata la risposta di Pechino, che ha varato misure dal valore analogo sull'importazione di beni Usa, andando a colpire prodotti come soia, carne, whiskey e altri alcolici e auto. Altri 16 miliardi di dazi sono destinati a essere introdotti nelle prossime settimane e il presidente americano Donald Trump si è addirittura spinto a parlare di ulteriori provvedimenti per 500 miliardi. 

Dichiarazioni che, come è facile da intuire, sono state seguite da repliche dello stesso tenore da parte dei rappresentanti della Repubblica Popolare. In realtà, però, la Trade War tra le due superpotenze globali era iniziata già dallo scorso 23 gennaio, con l’applicazione da parte americana di misure restrittive all’import di alcune tipologie di elettrodomestici e dei pannelli fotovoltaici in silicio. Successivamente, il 23 marzo, erano entrati in vigore i dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. La ragione ufficiale risiede nella volontà di Washington di colpire le pratiche scorrette ancora attuate da Pechino, come il dumping, in particolare nei metalli, e le acquisizioni forzate di conoscenze proprietarie, specie tecnologiche. Politiche che, nel corso degli anni, hanno determinato non poche difficoltà all’industria manifatturiera a stelle e strisce, contribuendo all’allargamento del deficit commerciale a tutto vantaggio cinese.

Ma al di là delle cause e delle motivazioni, è in questa sede interessante analizzare le conseguenze di queste politiche di stampo protezionista su uno dei settori chiave dell’economia, quello energetico. Come si è scritto in precedenza, la prima vera frizione tra le due potenze si è consumata nella tecnologia chiave delle energie rinnovabili, il fotovoltaico: una risorsa su cui gli Usa stanno investendo moltissimo da alcuni anni a questa parte, sia con installazioni gigantesche collocate negli ampi spazi desertici nordamericani sia con l’integrazione dei pannelli nelle abitazioni. Questi ultimi però, come peraltro accade anche nel mercato europeo, sono in grande maggioranza prodotti in Asia, in ragione di una maggiore competitività di costo. Una tendenza che ha progressivamente ridotto il business dei produttori di celle e moduli statunitensi, alla cui protezione si è richiamato ovviamente il provvedimento dell’amministrazione repubblicana.

Occorre però considerare che attualmente su circa 260.000 addetti complessivi nel solare USA, soltanto 38.000, ovvero circa il 15% del totale, sono legati alla produzione vera e propria di pannelli. Tutti gli altri sono invece impegnati nelle fasi di installazione e manutenzione; questo spiega perché le principali organizzazioni del settore si siano schierate contro i dazi, paventando conseguenze negative per la crescita del fotovoltaico negli States. L’aumento dei prezzi medi dei pannelli asiatici, infatti, già in questi primi mesi di efficacia del provvedimento, avrebbe fatto rinunciare gli investitori a numerosi progetti, determinando la perdita di 8.000 posti di lavoro, stima la Seia (Solar Energy Industries Association). Situazione che pare destinata ad aggravarsi per via degli ulteriori dazi voluti dalla Casa Bianca, in particolare quelli relativi all’acciaio: secondo una previsione apparsa su Forbes, gli impianti solari ed eolici sono quelli che impiegano più acciaio di qualsiasi altra fonte di energia. Il fotovoltaico necessita di 1.600 tonnellate di acciaio per MW, mentre l'energia eolica ha bisogno di oltre 400 tonnellate per MW; molto più contenuti, invece sono i fabbisogni di fonti come il gas e il nucleare, che necessitano rispettivamente di 4 e 40 tonnellate. Tutto questo senza contare l’acciaio necessario per le reti di trasmissione, che giocano un ruolo chiave per una generazione decentralizzata come quella rinnovabile.

Tuttavia, merita rilevare, che oltre alle rinnovabili, le misure anti Cina rischiano di andare a colpire anche le risorse fossili, in primo luogo il petrolio e il gas naturale, la cui estrazione, grazie alle nuove tecniche adottate da un decennio a questa parte, è decisamente aumentata negli Usa, permettendo così di ridurre il ricorso alle importazioni dall’estero. Il rischio di un aumento dei costi estrattivi è dietro l’angolo: l'acciaio è infatti una componente essenziale  nel comparto upstream di idrocarburi degli Stati Uniti, in particolare per le perforazioni e la costruzione di condotte e terminali di esportazione. C’è poi da considerare che tra le immediate contromisure della Cina c’è stata l’introduzione di dazi sul greggio americano, fattore che potrebbe frenare naturalmente le crescenti esportazioni statunitensi, con effetti a catena sull’intero andamento delle quotazioni internazionali.

L’energia quindi, più o meno direttamente, è coinvolta da questa guerra commerciale e non potrebbe essere altrimenti: come evidenzia un’analisi dell’ISPI le misure di Trump vanno a colpire soprattutto i beni intermedi, ovvero quei componenti necessari alla manifattura statunitense per produrre prodotti finali “made in Usa” da immettere sui mercati internazionali, compresi quelli energetici. 

Unica nota positiva, in una vicenda che avrà ripercussioni non di poco conto sui mercati, è il fatto che il prevedibile aumento dei costi dei progetti rinnovabili negli Usa potrebbe spingere i grandi investitori internazionali a guardare con maggiore attenzione al mercato europeo, che negli ultimi anni non ha viaggiato certo ai ritmi di quello nordamericano.