Entro il 2030, Tokyo ridurrà del 26% le proprie emissioni rispetto al livello del 2013. Un impegno che si è rinnovato con la pubblicazione di una strategia di lungo periodo che, se da un lato, punta ad una crescita sostenibile e a basse emissioni, dall’altro rimane ancora fortemente ancorata al nucleare e alle fonti fossili.

Si tratta delle nuove linee guida per lo sviluppo sostenibile di lungo periodo, pubblicate dal Governo giapponese lo scorso 11 giugno. Il documento presenta due evidenti peculiarità. Innanzitutto, è il primo documento programmatico del suo genere dall’inizio della nuova era “Reiwa”, iniziata a maggio di quest’anno con l’insediamento di Naruhito sul trono del Crisantemo. Un evento, questo, che pur nella sua religiosa ed esclusiva formalità, segna un momento di passaggio nella storia giapponese, scandita ancora oggi (seppur solo in parte vista l’adozione del calendario gregoriano) dall’avvicendarsi dei sovrani in quella che, secondo il mito, è la dinastia regnante più antica del mondo.

In secondo luogo, si tratta della prima strategia completa fondata sugli accordi di Parigi del 2015 firmati al termine della ventunesima edizione della conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (COP21). All’articolo 4, l’accordo obbliga i paesi firmatari a comunicare entro il 2020 una strategia di lungo termine per la riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti (LTS) (UNFCC 2019). Tokyo diventa così l’undicesimo paese dopo, tra gli altri, Canada, Messico, Germania, Stati Uniti e Francia (e non l’Italia), a sottoporre una strategia di lungo periodo alla Conferenza delle Parti.

Il documento affronta il nodo della lotta ai cambiamenti climatici in modo completo, chiamando all’azione imprese, amministrazioni locali e cittadini. Da qui, emerge chiaramente l’intento del governo giapponese di investire in settori chiave per la produzione energetica del futuro, come i sistemi di accumulo e il riutilizzo della CO2 prodotta negli impianti termoelettrici, e in tecnologie che possano ridurre i costi di produzione e utilizzo dell’idrogeno. Un settore, quest’ultimo, su cui grandi aziende locali come Toyota e Kawasaki stanno investendo da anni con applicazione soprattutto nella produzione di celle di alimentazione dei veicoli. E non è un caso che il settore dei trasporti sia quello dove si sono visti i maggiori miglioramenti a livello di emissioni di CO2 in atmosfera.

A queste politiche si aggiunge la promozione di sistemi di decentralizzazione della produzione energetica attraverso l’installazione di sistemi di gestione e distribuzione energetica a più alta efficienza e cogenerazione di energia tra aziende e privati. Secondo quanto dichiarato ad aprile di quest’anno dallo stesso Primo Ministro Abe, è interesse del paese rivestire un ruolo di leadership a livello globale nella promozione della sostenibilità ambientale e sociale e contribuire allo sviluppo di tecnologie all’avanguardia per la mitigazione dell’impatto dei cambiamenti climatici sulle società umane. Consapevoli del fatto che serve un apporto finanziario consistente da parte dei grandi attori privati.

La vera chiave di volta per la decarbonizzazione sarà ancora una volta il nucleare. Nei prossimi anni il governo punta ad aumentare il peso dell’energia prodotta da reattori messi in sicurezza e di nuova generazione in modo da raggiungere una quota di energia non fossile pari al 44%.

Per farlo, però, il paese deve tenere conto di un elemento fondamentale: la dipendenza dall’estero. Con risorse interne che soddisfano appena il 7,5% del fabbisogno nazionale, il Giappone dipende fortemente da fonti energetiche di importazione. Secondo dati del Ministero dell’Economia, del Commercio internazionale e dell’Industria (METI), la produzione energetica del paese è ancora legata a combustibili fossili quali petrolio, proveniente principalmente dall’Arabia Saudita, carbone, di origine australiana, e gas naturale, proveniente in maggioranza da Australia e Malesia (dati 2017). Le materie prime vengono raffinate e sfruttate per la produzione interna, dato che il paese-arcipelago non è allacciato a un network energetico regionale attraverso cui comprare o vendere energia.

È innegabile, che nel corso degli anni, grazie agli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&D) sostenuti dal governo, la ricerca in nuove tecnologie di efficientamento energetico e fonti rinnovabili (FER) ha fatto notevoli passi in avanti, tant’è che il 7% del fabbisogno energetico nazionale giapponese è oggi coperto da FER. Tuttavia, nonostante questi dati confortanti, il Giappone rimane il quinto paese al mondo per emissioni di CO2.

Inoltre, l’attuale dipendenza del Giappone dalle fonti fossili è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al 2010. Tra i fattori a incidere maggiormente sulle strategie di approvvigionamento, l’incidente nucleare di Fukushima, scatenato da un terremoto di magnitudo 9 e da uno tsunami che hanno colpito vaste aree del Nordest dell’arcipelago. A seguito di questo evento, il governo ha optato per un phase off temporaneo degli oltre cinquanta reattori nucleari del paese e avviato una campagna di verifiche sui loro standard di sicurezza. A partire dal 2012, l’esecutivo guidato dal conservatore Abe ha ordinato la riattivazione di alcuni reattori considerati sicuri (nove, attualmente) e di fatto rilanciato, nonostante l’opposizione di larghe fette dell’opinione pubblica, il nucleare come parte integrante della strategia di mix energetico. Oggi il nucleare occupa appena lo 0,8% dell’approvvigionamento energetico giapponese contro l’11% pre-2011.

In un testo che analizza le politiche industriali giapponesi dal dopoguerra a oggi, e in particolare quelle nel settore della produzione e distribuzione di energia, Berndt ha messo in luce il rilevante peso politico che hanno le utility energetiche del paese, principali sponsor dello sviluppo dell’industria nucleare, nelle definizione delle strategie economiche del governo.

E ancora oggi, nel post-Fukushima, quest’influenza è visibile. In una nota pubblicata dal quotidiano Japan Times, Tomoaki Nakanishi, ex funzionario dell’Ufficio per le risorse naturali e l’energia del METI, ad esempio, spiega che il governo deve continuare sulla strada dello sviluppo di reattori sicuri, flessibili ed economicamente efficienti. Inoltre, identifica nel migliore sfruttamento di fonti fossili (attraverso, ad esempio, la diffusione di impianti di gassificazione a ciclo combinato) un punto cardine delle politiche energetiche di Tokyo. È chiaro, avverte però l’ex funzionario ministeriale, che il governo deve produrre uno sforzo consistente nello sviluppo di strutture di controllo e supervisione che possa riconquistare la fiducia del pubblico nei confronti del nucleare (Nakanishi 2019).

Il nodo del nucleare e della dipendenza da fonti come il carbone mettono in luce le contraddizioni dell’operato del governo giapponese in materia di decarbonizzazione. Secondo l’osservatorio Climate Action Tracker, le azioni dell’esecutivo contrastano con le intenzioni dichiarate dal suo Primo Ministro che, a settembre 2018, dalle colonne del Financial Times aveva invocato misure “consistenti” contro i cambiamenti climatici da parte della comunità internazionale. Il Giappone continua a finanziare la costruzione di impianti a carbone in patria e all’estero e non tarda a prendere una posizione chiara in materia di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Insomma, non sembra ancora avere una propria visione, oltre gli impegni già presi a Parigi, post-2030 (Climate Action Tracker 2019).