Oggi la benzina è rincarata è l’estate del quarantasei, un litro vale un chilo di insalata, ma chi ci rinuncia? A piedi chi va? L’auto che comodità! Sulla Topolino amaranto, dai siedimi accanto che adesso si va”. Le parole di Paolo Conte rendono plasticamente conto di quel che per gli italiani significava negli anni del dopo-guerra – nei favolosi anni del miracolo economico – la ‘conquista’ sociale dell’automobile.

Nell’Italia contadina del 1949, col 40% di addetti in agricoltura (6% a fine secolo), possedere un’automobile era un lusso per pochi. La Fiat 500, subito ribattezzata Topolino, venne commercializzata dal 1936 al prezzo di 8.900 vecchie lire: dieci volte lo stipendio di un bancario (circa 10.000 euro d’oggi). Nel 1949 solo l’1% della popolazione di 46,5 milioni di unità disponeva di un mezzo di locomozione: autovettura (267.000 unità) o motoveicolo (171.000 unità). La benzina costava 116 lire al litro, pari a 2,22 euro d’oggi. Da lì, si avvia una crescita straordinaria del parco autovetture che salirà a circa 2,0 milioni di unità nel 1960; 11,2 nel 1970; 16,9 nel 1980; 25,6 nel 1990; 29,3 nel 2000; 37,9 nel 2016. Un aumento in mezzo secolo di 109 volte!

Parco circolante autovetture in Italia per tipo di alimentazione (migliaia di veicoli)

Fonte: ACI

Parallelamente, si moltiplicava la rete di distribuzione carburanti che nel 1960 contava già 27.000 punti vendita (p.v.) dislocati su strade statali, provinciali, comunali e nelle città giacché la rete autostradale contava appena 1.169 chilometri, di cui 320 dei tratti aperti dell’Autostrada del Sole – realizzata nell’arco di soli 8 anni – che sarà ultimata e inaugurata nel 1964. Nell’arco degli anni 1960, l’offerta di carburanti conosce una crescita tumultuosa con un aumento dei p.v. di circa il 50% a un massimo storico nel 1971 di 40.000 unità. Con l’esplodere della prima crisi petrolifera del 1973-1974 inizia un loro progressivo declino sino ai 21.000 attuali, a fronte di un calo ancor superiore negli altri paesi europei.

Numeri punti vendita carburanti nei principali paesi UE

Fonte: Unione Petrolifera

Ancor prima dell’esplodere della crisi erano infatti andate emergendo le ragioni di debolezza e diseconomicità che attraversavano la rete carburanti. Quel che aveva portato il governo ad elaborare il primo “Piano di razionalizzazione della rete carburanti” – che resterà sostanzialmente inattuato come quelli che seguiranno – e nel 1974 il “Piano per la riorganizzazione del settore petrolifero” che non avrà miglior fortuna così come per la sequenza di “Piani Energetici Nazionali” che vedranno la luce negli anni 1970-1980. Tre le principali ragioni di debolezza, che non è esagerato affermare si sarebbero trascinate sino ai giorni nostri. Un eccesso, in primo luogo, dei p.v. proliferati al di fuori di un qualsiasi disegno programmatorio con un p.v. ogni 1300 vetture in Italia, contro 2000 in Francia e 2800 in Germania e Gran Bretagna, con una densità geografica di un p.v. ogni 21 km di rete stradale contro i 70 della Francia. Ne discendeva, in secondo luogo, una loro bassa produttività con erogati medi sino a cinque volte inferiori a quelli delle stazioni di servizio dei maggiori paesi europei e più elevati costi di distribuzione che causavano un differenziale di prezzo a danno dei nostri consumatori.

Erogato medio per punto vendita nei principali paesi UE negli ultimi dieci anni

Fonte: Unione Petrolifera

In terzo luogo, un eccesso di regolazione con controlli amministrativi dei prezzi dei carburanti fissati sin dal 1944 dal Comitato Interministeriale Prezzi (CIP) – la loro liberalizzazione si avvierà solo negli anni 1990 – senza alcuna attenzione alle ripercussioni che ne sarebbero derivate sui conti degli operatori. Una regolazione che, nonostante il gran proliferare dei p.v., manteneva elevate discrezionali barriere all’entrata (autorizzative), ne limitava gli orari di servizio ( a 52 ore settimanali) obbligando a rotazione la chiusura nei week end (così da tenere in vita i p.v. marginali); ostacolava la diversificazione dei servizi loro (verso il non-oil) a discapito dei ricavi: con l’impossibilità a generare pressioni al ribasso dei prezzi e tale da precludere la concorrenza sia inter-brand che intra-brand. Concorrenza già di per sé limitata da un eccesso di fiscalità sui prezzi dei prodotti finali che vi pesava per percentuali per lo più superiori al 60%. Essere efficienti migliorava la competitività in misura impercettibile nei prezzi finali. La parola mercato era in sostanza bandita più che dalle imprese, dalla regolazione, dalle concertazioni governative e sindacali, dalle direttive politiche emanate dal Ministero dell’Industria. Un caso esemplare di “fallimento della regolazione”. Una scarsa concorrenza la cui causa fu addebitata per molti anni dall’Antitrust alle imprese petrolifere con pratiche di cartello tramite le “troppe intese” (orizzontali e verticali) tra loro e i distributori. Arrivando a comminare nel 2000 una multa di 640 miliardi lire, poi annullata, nonostante quelle intese fossero esplicitamente volute dal Governo! Ho sempre pensato che la vera causa della scarsa concorrenza fosse il “troppo Stato” e non le “troppe intese. E’ significativo il ravvedimento della stessa Antitrust che in una Segnalazione del 2004 ammise che gli ostacoli alla concorrenza derivavano dalla regolazione e non da comportamenti strategici delle imprese.

Andamento storico prezzi gasolio e benzina e relativa componente fiscale

Fonte: Unione Petrolifera

Dagli anni 1970 la distribuzione carburanti è stata attraversata da una trasformazione epocale che ha visto intrecciarsi alla ‘razionalizzazione’ della rete del tutto casuale, con un dimezzamento dei p.v., una serie di eventi che ne hanno radicalmente modificato la morfologia industriale e proprietaria. Primo: l’uscita o il disimpegno dei grandi gruppi e marchi esteri, che sino ai primi anni Settanta controllavano il 60% del nostro mercato petrolifero. Se ne andavano perché stanchi di perdere denaro, mentre li si accusava di odiosi cartelli per accrescere i profitti, e indisponibili a sottostare alle schizofreniche politiche pubbliche. Secondo: la polverizzazione delle struttura proprietaria dei p.v., oggi disseminata in oltre 130 marchi, con una riduzione della dimensione e dell’erogato medio degli impianti, rimasto sostanzialmente in variato e ancora nettamente inferiore a quello degli altri paesi europei, a scapito delle economie di scala e dell’efficienza. Terzo, il diffondersi dell’illegalità nella movimentazione e distribuzione di carburanti con evasioni fiscali stimate in miliardi euro e 5.000 p.v. che registrano un erogato sotto i 350 mila litri, impossibili a reggersi economicamente se non in modo illegale.

A soffrirne è la parte sana dell’industria di distribuzione, sono le casse dello Stato, sono i consumatori. Con un simile assetto, ogni prospettiva, pur delineata nei documenti programmatici governativi, da ultimo nella recente proposta di “Piano Integrato Energia e Clima”, di rivoluzionare i sistemi di mobilità con la penetrazione delle auto elettriche e ibride per 6 milioni di unità o con la distribuzione di nuovi carburanti (gnl, biocarburanti, idrogeno) appare estremamente difficoltosa se non impossibile. Per più ragioni: (a) per l’assenza di un qualsiasi coordinamento centrale delle decisioni che dovrebbero essere congiuntamente prese da una pluralità di soggetti; (b) per l’enorme difficoltà della maggior parte delle imprese a sostenere la gran mole di investimenti sia nella realizzazione di nuove infrastrutture che nella modernizzazione dei p.v. esistenti per il quaranta per cento realizzati negli anni 1970. Difficoltà accresciute dall’assoluta nebulosità delle politiche pubbliche che al centro o in periferia si intendono adottare. Un’incertezza che frena ogni strategie e decisioni di investimento, anche quando vi sarebbero forze imprenditoriali sane, capaci, disponibili a farlo.