Da circa 160 anni il petrolio è protagonista della scena energetica mondiale: dalla fase pionieristica della seconda metà dell’ottocento, a tutto il XX secolo che ha segnato l’apogeo del suo sviluppo, agli anni 2000 caratterizzati dalla specializzazione nei settori chiave dei trasporti e della petrolchimica, alla prospettiva odierna di un lento declino a favore delle rinnovabili, i prezzi del petrolio sono sempre stati espressi in dollari USA.
Questa peculiarità ha radici molto profonde che risalgono alla scoperta del petrolio e alla prima valorizzazione dei prodotti, che è avvenuta proprio negli Stati Uniti: dal primo pozzo di Titusville alle iniziative del leggendario pioniere colonnello Drake, alla prima raffineria, tutto ha avuto come sfondo gli Stati Uniti d’America. Anche le tecnologie di estrazione e raffinazione sono nate in territorio americano sino a creare un legame molto saldo con la lingua e le unità di misure inglesi, i barili, in contrapposizione con le unità di misura dell’Europa continentale: le tonnellate.
La nascita del mercato internazionale del petrolio è avvenuta ad opera di alcune grandi imprese americane alle quali si sono affiancate anche compagnie con base europea come la Shell, la British Petroleum, la francese TOTAL, l’italiana Eni ed altre compagnie di Stato. La presenza di queste compagnie non è però stata in grado di modificare gli standard dell’industria petrolifera né tantomeno di portare alla nascita di criteri di fissazione dei prezzi diversi dal dollaro.
D’altra parte, il primo grande mercato del petrolio è stato quello americano e dagli Stati Uniti sono partite le prime esportazioni di prodotti, in parallelo con lo sviluppo della motorizzazione a livello mondiale. Non a caso le prime serie storiche dei prezzi del petrolio, che risalgono al 1861, fanno riferimento al WTI (West Texas Intermediate), che è stato il principale “marker” delle quotazioni del greggio insieme alla media dei greggi americani sino al 1946, quando nuovi greggi sono stati quotati ufficialmente.
Con la scoperta dei grandi giacimenti del Medio Oriente, il baricentro petrolifero mondiale è poi cambiato e il mercato internazionale si è enormemente allargato sino ad assumere una nuova connotazione meno legata agli Stati Uniti. A marcare questo cambiamento è stato l’affiancamento al WTI dell’Arabian Light, che è diventato un punto di riferimento per la fissazione dei prezzi di tutti i greggi del Medio Oriente e di altre regioni produttrici. Tuttavia, anche i prezzi dei nuovi greggi sono stati denominati in dollari per barile.
La nascita dell’OPEC e la conquista di un suo ruolo in materia di fissazione dei prezzi ai tempi delle grandi crisi energetiche hanno rappresentato una eccezionale opportunità per lo sganciamento dei prezzi del greggio dal dollaro. I paesi produttori non hanno però mai costituito un blocco economico compatto dotato di una propria moneta di riferimento. Al contrario essi sono sempre stati caratterizzati da una forte eterogeneità sia sul piano politico, sia su quello economico e demografico. Tutto ciò non ha quindi mai consentito di arrivare ad un coordinamento delle rispettive politiche economiche e, quindi, ad ipotizzare l’adozione di una particolare valuta al posto del dollaro americano per fissare i prezzi dei greggi OPEC.
A seguito dei processi di globalizzazione dell’economia mondiale, anche gli scambi di petrolio hanno cambiato fisionomia ed il peso dei cosiddetti barili di carta (paper barrels) scambiati sui mercati finanziari è diventato sempre più importante a scapito dei barili fisici (wet barrels). Ma anche sulle grandi piazze finanziarie da New York, a Londra, a Singapore, dove il commercio di barili di carta si è progressivamente sviluppato, i prezzi del petrolio, i futures, hanno continuato ad essere denominati in dollari.
Lo sviluppo del petrolio del Mare del Nord, nel corso degli anni ‘80, e l’adozione del Brent come “marker crude” hanno costituito un’opportunità per l’Europa di fissare il prezzo dei nuovi greggi in una valuta diversa dal dollaro. Tuttavia, occorre tener presente che questi provengono da aree produttive appartenenti ad almeno cinque paesi, con un peso prevalente di UK e Norvegia. Una difficoltà in più per prezzare questi greggi in una valuta comune come ad esempio la sterlina, che comunque è rimasta sganciata dall’euro anche quando l’Unione europea ha adottato la moneta unica. Oggi, nella prospettiva della Brexit, la possibilità di una consistente base di riferimento sul piano produttivo su cui costruire un mercato sufficientemente ampio per facilitare la formazione di prezzi in euro appare remota.
Molto diversa è la situazione dell’Europa come acquirente di greggio in quanto le sue importazioni, anche se in progressiva riduzione, sono ancora molto rilevanti e pari a circa 10 milioni di barili al giorno. In questo senso la possibilità di utilizzare come moneta di riferimento l’euro potrebbe trovare una sua giustificazione, ma anche in tal caso le difficoltà sono numerose in quanto gli acquisti di greggio non vengono fatti da un unico operatore ma da una pluralità di attori che si riforniscono da una molteplicità di paesi: dalla Russia al Medio Oriente, all’Africa, alle Americhe. A loro volta, non tutti questi paesi potrebbero essere interessati ad essere pagati in euro o a fissare i prezzi del loro greggio in euro.
Esiste comunque una dimensione in cui il riferimento all’euro potrebbe avere una sua logica: si tratta degli acquisti europei di petrolio e di gas dalla Russia che costituiscono un ammontare molto rilevante sia in termini fisici che in termini finanziari. Considerata anche la rilevanza delle importazioni di beni e servizi europei da parte della Russia che, a sua volta, è anche il primo fornitore di energia dell’Unione europea con 3,4 milioni di b/g di greggio e oltre 2 milioni di b/g di gas, l’utilizzo dell’euro potrebbe offrire dei vantaggi. Occorre però osservare che questo schema potrebbe essere visto con ostilità dai paesi dell’est Europa che aspirano ad una maggiore autonomia dalle importazioni di energia dalla Russia, ancora molto rilevanti per ragioni storiche e politiche.
Il problema dell’utilizzo di monete diverse dal dollaro nel commercio internazionale di fonti di energia ha comunque una sua logica e, guardando al futuro, la valuta cinese potrebbe avere un suo ruolo. Le importazioni cinesi di petrolio e di gas già oggi molto rilevanti, circa 8 milioni di b/g di solo petrolio, sono destinate a crescere ancora e questo paese ha acquisito la forza economica e finanziaria per chiedere a molti fornitori la fissazione dei prezzi di queste materie prime in yuan.
In conclusione, la posizione del dollaro come moneta di riferimento per il petrolio rimane ancora molto forte ma l’evoluzione, in pieno sviluppo, verso nuove configurazioni dei mercati energetici mondiali potrebbe portare a delle sorprese.