L’attività di ricerca di idrocarburi può essere molto remunerativa quando ha successo e può colpirti rovinosamente quando fallisce. Per quanto banale, questa frase va tenuta presente prima di fare qualche considerazione su come siano cambiati gli investimenti upstream negli ultimi anni. Dopo la consistente frenata dei due anni precedenti, -24% nel 2015 e -28% nel 2016, nel 2017 gli investimenti mondiali nel settore Oil&Gas sono cresciuti di un timido 4% a 390 miliardi di dollari, secondo IFP Energies Nouvelles, a 450 miliardi di dollari, secondo l’AIE. Quest’ultima si spinge a stimare che nel 2018 gli investimenti upstream siano saliti un altro pò: +5% a 472 miliardi di dollari in termini nominali.

Entrambi gli uffici studi concordano su un punto: i marginali aumenti degli investimenti upstream degli ultimi due anni sono stati guidati dall’industria dello shale oil, che rappresenta una fetta pari a circa il 20%. Al contempo, gli investimenti nei giacimenti convenzionali restano deboli, concentrati in progetti brownfield (quelli meno rischiosi), mentre i progetti greenfield nel 2018 hanno pesato solo per un terzo del totale, livello più basso da diversi anni. Sintomo che la propensione al rischio delle compagnie petrolifere è drasticamente diminuita, nonostante sia indispensabile per andare a cercare petrolio e gas in posti inesplorati, come l’Artico o le acque ultraprofonde. Si “trivella” invece solo dove si ha la certezza di trovare idrocarburi, per evitare i rovinosi fallimenti di cui si parlava all’inizio. Quindi, sebbene negli ultimi due anni gli investimenti upstream siano leggermente aumentati, il dato va interpretato alla luce di questi particolari.

L’aumento è localizzato in Nord America, negli USA precisamente, dove i pozzi orizzontali di Permian hanno bisogno di continui investimenti per produrre greggio e gas. È quindi un aumento fisiologico, intrinseco all’industria stessa dello shale, una tecnica estrattiva caratterizzata dal fatto che se si smette di investire, la produzione si ferma. Altrove gli investimenti continuano a diminuire inesorabilmente. In Europa la situazione sembra grave. In Gran Bretagna, paese dove si forma il prezzo del Brent, gli investimenti sono diminuiti del 22% nel 2017 (variazione calcolata in dollari). Dopo il picco del 2014, i giacimenti del Mare del Nord britannico sono entrati in una fase terminale e per questo - stando alle previsioni dell’Oil&Gas Authority UK - gli investimenti continueranno a diminuire da qui al 2022 a un tasso medio annuo del 13%. In Norvegia, sempre nel 2017, gli investimenti sono diminuiti del 9% (in dollari, dell’11% in corone norvegesi), dopo i livelli record raggiunti nel 2013 e nel 2014. I manager alla guida delle major portano avanti strategie che consentano ritorni certi, per poter distribuire dividendi agli azionisti. Meglio quindi investire nella raffinazione o in petrolchimica, che andare alla ricerca di idrocarburi nelle aree più remote del pianeta.

A lungo andare i nodi di questa politica “prudente” potrebbero venire al pettine. Infatti se le fonti fossili continueranno a pesare per circa l’80% nel mix energetico globale (di cui il 30% solo petrolio), come stima l’AIE, e nello stesso tempo la riduzione degli investimenti iniziasse a farsi sentire sul mercato petrolifero, traducendosi in una riduzione dell’offerta, i prezzi del barile potrebbero schizzare alle stelle, con ricadute molto negative sull’economia e sulla vita di tutti i giorni. Uno scenario che per il momento sembra fortunatamente lontano: l’offerta mondiale di greggio ha superato in agosto scorso i 100 milioni di barili al giorno, mentre i consumi ancora non hanno raggiunto questa importante soglia psicologica. Ma stando alle previsioni AIE ed EIA lo faranno molto presto, e altrettanto presto la produzione dei bacini di shale oil del midwest potrebbe iniziare a declinare, causando quello squilibrio del mercato in grado di mandare l’economia globale in recessione.

In Italia, che tra l’altro versa già in recessione tecnica, gli effetti del rallentamento degli investimenti mondiali upstream si sono fatti già sentire: le società nazionali di servizi in Sicilia e nel ravennate, riconosciute come eccellenti in ogni parte del mondo, hanno già visto rallentare il loro portafoglio ordini. Nel 2017 il valore del mercato globale dell’ingegneria Oil&Gas si è attestato a 42 miliardi di dollari, l’11% in meno del 2016, il 56% in meno del 2015. A questa situazione non rosea per le imprese italiane, si aggiungono preoccupazioni alimentate dalla politica dell’attuale governo. Oltre all’aumento di 25 volte dei canoni di concessione per i giacimenti attivi in Italia, con il decreto legge semplificazioni si introduce anche una moratoria dei permessi esplorativi già assegnati, in attesa che venga messo nero su bianco il piano delle aree, per individuare dove è possibile fare ricerca e dove no. Norme battezzate “blocca trivelle”, contro le quali proprio questa settimana si stanno mobilitando i “caschi gialli”. Sull’onda dei gilet gialli francesi, i lavoratori del settore stanno scendendo in piazza a difendere il proprio posto di lavoro.

Con questi chiari di luna, infatti, c’è un concreto rischio che le compagnie petrolifere attive nel Paese taglino la corda, prendendo al volo questa occasione di ridurre ulteriormente gli investimenti upstream, offerta su un piatto d’argento dall’attuale governo. E che quindi l’Italia perda – per giunta a vantaggio di altri paesi che nell’Adriatico continueranno a trivellare - una produzione di idrocarburi pari a 5,6 miliardi di metri cubi di gas e a 4,1 milioni di tonnellate di greggio all’anno. Per un valore complessivo che nel 2017 ha sfiorato i due miliardi e mezzo di euro.