La formazione del settore energetico ha esperito un processo evolutivo che nel giro di tre decenni l’ha trasformata radicalmente. Tale mutamento non è altro che il riflesso di quello, più ampio, che lo stesso settore ha vissuto e sta vivendo, che a sua volte riflette quello della società intera. L’industria energetica, infatti, non accade nel vuoto, piuttosto essa avviene e diviene all’interno di quel grande contenitore di azioni, idee e sentimenti che è la società. Di qui un rapporto dialettico che trasforma, nello stesso tempo, la società e l’industria: la prima fa la seconda, e viceversa. Agli albori, l’idea visionaria di Drake di applicare un motore ad uno scalpello di perforazione dà il via all’epopea del petrolio, un paradigma industriale che ha plasmato quasi due secoli dell’avventura umana sul pianeta.
Più recentemente, c’è un evento che fa da crinale per l’industria energetica, modificandone i comportamenti, la vision, le strategie. L’anno è il 1989, il fatto è l’oil spill dell’Exxon Valdez al largo delle coste dell’Alaska: 41 milioni di litri di petrolio riversati nel mare e un ammontare di danni punitivi per l’Exxon pari a 5 miliardi di dollari. Quel 24 marzo del 1989 rappresenta uno spartiacque per l’industria, non solo perché le autorità varano regolazioni più stringenti sul piano ambientale - ad esempio l’Oil Pollution Act del 1990 - ma anche a ragione del mutamento irreversibile nella sensibilità ambientale dell’industria energetica. Essa comprende che un incidente ambientale può essere distruttivo e vanificare anni di cash flow, che l’ambiente non può essere semplicisticamente interpretato come un vincolo piuttosto deve essere considerato una variabile strategica dell’agire dell’impresa.
Il 1989 è solo l’inizio di un percorso virtuoso attraverso il quale l’industria energetica acquisisce consapevolezza della rilevanza della questione della sostenibilità. Se si dovessero indicare altri momenti chiave attraverso i quali si snoda questa evoluzione ne evidenzieremmo tre: l’Earth Summit del 1992 di Rio de Janeiro, ovvero la prima conferenza dei capi di stato dedicata all’ambiente; il Protocollo di Kyoto del 1997, che stabilisce – per la prima volta nella storia umana – dei tagli delle emissioni di anidride carbonica legalmente vincolanti; l’Accordo di Parigi del dicembre 2015, attraverso il quale paesi industrializzati ed emergenti definiscono un sentiero di riduzione dei gas serra teso a contenere l’incremento di temperatura del pianeta entro i 2°C.
Questi tre momenti rappresentano tappe di assoluto rilievo che alterano il contesto all’interno del quale si svolge l’agire dell’industria energetica. E poiché, come detto, il rapporto tra quell’industria e il contesto è dialettico, essa si trasforma, fino a cambiare pelle. Simbolicamente, l’Oil & Gas Climate Initiative (OGCI) può essere interpretata come l’emblema del mutamento di prospettiva del business. Nel 2014 dieci compagnie petrolifere siglano un accordo volontario teso a contrastare il cambiamento climatico. Non è una rivoluzione copernicana, perché un business sviluppatosi nell’arco di due secoli non può essere modificato nello spazio di qualche anno. Di certo, però, si tratta di un cambio di direzione importante attraverso il quale l’industria energetica assume un atteggiamento proattivo, e non di mera reazione, rispetto alla questione climatica. La proposta da parte dell’OGCI di un carbon pricing sulle fonti energetiche è il segno inequivocabile di un mutamento profondo dell’industria energetica che reinterpreta se stessa come forza attiva della transizione energetica. Il carbon pricing è solo un aspetto, se si pensa all’orientamento verso la decarbonizzazione e l’economia circolare, o anche ai forti investimenti nel settore delle rinnovabili, della maggiore impresa energetica italiana, ovvero l’Eni.
Parlando di formazione nel mondo dell’energia, ci sembrava doverosa questa premessa perché essa consente di comprendere meglio il fenomeno, sia a livello delle università che del business. Per quanto concerne le prime, la crescita di importanza del tema ambientale dà luogo, dopo il 1989 e nel giro di pochi anni, ad uno sviluppo vorticoso di corsi under e post-graduate dedicati alle tematiche ambientali. Ciò accade sia sul piano tecnico-ingegneristico – si pensi alla figura dell’ingegnere ambientale – che su quello economico (es. l’economista ambientale). Numerosi Master vengono proposti dalle maggiori università, sia in Europa che nel resto del mondo. A titolo esemplificativo qui ci sembra importante citare il Master in Environmental and Resource Economics di UCL (University College, London), che uno studioso di rango quale David Pearce lancia a livello internazionale. Sono gli anni in cui il tema ambientale comincia ad assumere un suo status autonomo sia all’interno della comunità scientifica che rispetto al grande pubblico. Il volume del 1989 di David Pearce, Anil Markandya ed Edward Barbier “Blueprint for a green economy” potrebbe essere considerato il simbolo di tale crescita di rilevanza. Esso segna l’inizio di una proliferazione veloce e continua di pubblicazioni, case editrici (es. Earthscan) e percorsi di studio specificamente dedicati al tema dell’ambiente. La crescita è così incalzante che in breve tempo l’offerta di formazione nel campo dell’environment diventa preminente rispetto a quella dedicata all’energy. Di fatto, il fascino della tematica ambientale per il pubblico giovanile - come pure la sovrastima delle aspettative occupazionali legate alle nuove professioni in questo campo - danno luogo ad un boom imprevisto. Lo stesso fenomeno è riscontrabile a livello dei libri di testo, nel quale quelli in environmental economics surclassano numericamente quelli in energy economics.
In breve, nel contesto dell’offerta formativa, l’ambiente finisce per dominare l’energia: ciò che era periferia diventa centro: il piccolo diventa grande, ed il grande piccolo. E’ interessante osservare come nei primi anni prevalga la tendenza alla separazione: pur essendo i due temi fortemente interconnessi, i numerosi percorsi formativi dedicati all’environment tendono ad essere disgiunti dall’approfondimento dell’energy. Ad esempio, soprattutto nei paesi del centro e del Nord Europa, si assiste ad una formidabile offerta di percorsi di studio dedicati all’ambiente. Minore il numero dei percorsi specificamente dedicati all’energia (es. University of Surrey, UK).
Pochissimi i corsi che combinano i due ambiti: tra le eccezioni citiamo, in Europa, il Master in Energy and Environmental Management and Economics (MEDEA), introdotto dall’Eni nel 1991 quale evoluzione dei corsi post-graduate della Scuola Enrico Mattei, parte integrante di Eni Corporate University, la società costituita da Eni nel 2001 per integrare in un’unica realtà tutte le strutture che in Eni si occupavano di formazione, rapporti con il mondo dell’education e selezione. Fondata nel 1957 da Enrico Mattei, la Scuola ha di fatto aperto la formazione post-graduate in Italia e ha erogato ogni anno circa 50 borse a studenti meritevoli, italiani e stranieri, arrivando a formare nei suoi 62 anni di storia circa 3.000 giovani laureati provenienti da 110 paesi del mondo. Con l’introduzione del tema dell’ambiente nell’alveo preesistente dei corsi energetici, il MEDEA precorre i tempi ed innova una realtà già di per sé innovativa. Altro esempio di combinazione virtuosa di temi energetici ed ambientali è il DEA “Énergie et Environnement” proposta dalla prestigiosa IFP School di Parigi. Negli anni, questi due esempi vengono progressivamente imitati, la distanza tra l’ambito energetico e quello ambientale si assottiglia e si assiste alla loro graduale ed opportuna combinazione. Citare oggi un’università o un centro di formazione aziendale quale esempio virtuoso di percorso di studio dedicato all’energia e all’ambiente sarebbe operazione pretenziosa, essendo l’abbondanza dei corsi proposti debordante in ogni continente. Tutte le maggiori e migliori università del mondo offrono oggi corsi energetico-ambientali. Intorno alle esperienze iniziali di centri quali l’IFP, la Scuola Enrico Mattei, la UCL, la Colorado School of Mines o l’Università di Austin Texas, si è sviluppata una sovrabbondanza di esperienze formative che lasciano ai giovani una varietà ed una qualità di scelta notevolissime.
D’altra parte, occorre sottolineare la distanza che intercorre tra formazione universitaria e aziendale. Infatti, se per un verso è vero che il business ha considerevolmente sviluppato al suo interno il training, focalizzato sui temi energetico-ambientali, rivolto ai dipendenti, per un altro verso occorre riconoscere che la stessa cosa non sempre accade per le iniziative proposte, in forma continua, all’esterno dell’azienda, ovvero ai giovani. Ci piace sottolineare, in tale contesto, come l’Eni rappresenti un’eccezione nel panorama internazionale. Oltre al già citato MEDEA, attraverso la sua Corporate University - essa stessa iniziativa pioneristica ed innovativa - Eni propone, in collaborazione con Politecnico di Torino, il Master in “Energy Engineering and Operations”, che offre una visione completa del mondo oil and gas, con un focus specifico sul settore upstream e sulla transizione energetica. Inoltre, a partire da quest’anno, in collaborazione con il Politecnico di Milano, Eni avvia il Master in “Energy Innovation” che sviluppa un programma didattico trasversale, centrato sulle energie alternative e sull’impiego delle nuove tecnologie, tra cui il digitale. Naturalmente, non si tratta delle uniche iniziative presenti nel nostro paese, essendosi sviluppati negli anni un certo numero di programmi Master dedicati ai temi energetici ed ambientali: ad esempio, programmi Master quali il Ridef (Rinnovabili ed Efficienza Energetica) del Politecnico di Milano, il Safe (Gestione delle Risorse Energetiche), il Geca (Gestione e controllo dell’ambiente) della Scuola Sant’Anna di Pisa o, infine, il Mager (Master in Green Management, Energy and Corporate Social Responsibility) dell’Università Bocconi rappresentano iniziative ormai consolidate che costituiscono un punto di riferimento per i giovani interessati ai temi in questione.
Citiamo queste opportunità didattiche per i giovani laureati quale esempio di percorsi di studio che riflettono quel dialogo tra energia e ambiente che, avviato tre decenni fa, ha raggiunto oggi il suo culmine. Nondimeno, riteniamo che tale fenomeno sia destinato ancora a crescere in futuro poiché esso rappresenta null’altro che una delle molteplici facce di ciò che oggi chiamiamo transizione energetica, sentiero lungo cui si sono incamminate molte aziende del settore oil & gas, tra cui l’italiana Eni che con decisione sta puntando su politiche di decarbonizzazione e iniziative di economia circolare. Non solo, l’accadere congiunto della transizione e della digitalizzazione - e più in generale, l’affermarsi di un’integrazione sempre più estesa tra saperi - proietta la formazione energetico-ambientale in un nuovo, vasto e promettente alveo. La digitalizzazione implica l’emergere di nuovi contenuti suscettibili di approfondimento formativo - si pensi ai temi delle smart grid e degli smart building o a quello dei big data analytics, o al nuovo concetto di prosumer - ma anche una trasformazione profonda, se non una rivoluzione, delle metodologie della stessa formazione (ad esempio, distance/mobile o anche adaptive learning). In sintesi, il digitale impatta sul training, tanto come soggetto (i nuovi metodi) quanto come oggetto (i nuovi temi). Ragioni di spazio impediscono di sviscerare la complessità del nesso digitale-energia in questo articolo. Di certo, il fenomeno pone la questione - bene esplorata nel rapporto della International Energy Agency “Digitalization and Energy”, al quale rimandiamo per approfondimenti - di cosa rappresenti la digitalizzazione per l’energia, di quali siano le sue implicazioni e, soprattutto, di quali policy occorra implementare per governare al meglio il fenomeno. Tornando all’oggetto del presente articolo, e per usare un’immagine, si può affermare che progressivamente un semplice segmento - i cui estremi sono energia e ambiente - si va trasformando in un triangolo, il cui terzo vertice è il tema digitale. E’ bene che nuove iniziative e forme virtuose di collaborazione tra industria e università sappiano approfondire i nuovi nessi che si vanno creando, proponendo alle giovani generazioni forme di conoscenze, competenze e strumenti innovativi che consentano loro di interpretare con sguardo originale e diverso il divenire del mondo.