Il petrolio è sempre stato la livella degli squilibri della Libia. Uno strumento politico, ancor prima che economico, che si è rivelato fondamentale per tenere insieme le tre regioni storiche del Paese, distanti per cultura e storia, e gestire le tensioni tra le diverse confederazioni, tribù e clan che ne compongono il tessuto sociale. Ne era ben consapevole il Re Idris Senussi già nei primi anni ‘60. La sua pratica di distribuire in modo oculato la rendita petrolifera tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan (e ai vari potentati locali) è stata poi raffinata da Gheddafi, che l’ha elevata a pilastro del suo sistema di governo. Mentre la ricchezza, per 40 anni, veniva convogliata verso i fedelissimi del Rais a discapito della popolazione dell’Est (che sarà la prima a ribellarsi nel 2011), la struttura dell’economia libica aderiva sempre più all’archetipo del rentier state. E con un comparto energetico che è arrivato a pesare per oltre l’80% dell’export e più del 60% del PIL, è chiaro che chi riesce a controllare risorse così essenziali per l’economia libica si trova in mano, allo stesso tempo, anche le chiavi del potere politico.
Questa dinamica, almeno nei suoi tratti essenziali, resta inalterata anche oggi, nel periodo seguito alla caduta di Gheddafi. Ma si è innestata su un quadro politico e di sicurezza profondamente mutato, i cui caratteri fondamentali sono la drammatica frammentazione delle istituzioni, la proliferazione di gruppi armati su cui le autorità centrali non riescono a esercitare alcun controllo, e soprattutto il prepotente riemergere di storiche pulsioni centrifughe che minacciano l’esistenza stessa della Libia come Stato unitario.
Già nel 2011 i tentativi di smobilitare le decine e decine di milizie libiche sono sostanzialmente falliti. Fin dal principio questi gruppi armati hanno avuto una vocazione solo locale, ma anche un peso spropositato rispetto alla loro reale consistenza, spesso limitata a poche decine o centinaia di effettivi. Infatti, nessuna milizia ha accettato di rinunciare ai privilegi acquisiti durante la rivolta, sia perché non ha ricevuto adeguate garanzie, sia per l’avversione radicata verso qualsiasi forma di centralismo forte. Così, il controllo di un importante snodo viario, di una sede istituzionale, o ancora di un’infrastruttura strategica (soprattutto quelle del comparto energetico), ha messo queste milizie in una posizione di forza rispetto alla politica. Per fare un solo esempio, si pensi alla vicenda della Morning Glory, la petroliera che nel 2014 partì da Sidra con un carico illegale poiché non approvato dal governo e dalle autorità competenti, fu intercettata dai Navy Seals americani e infine costò il posto all’allora Primo Ministro Ali Zeidan.
Questa dinamica è stata portata all’estremo nella Mezzaluna Petrolifera, cioè l’entroterra del Golfo di Sirte dove si trova il secondo più importante bacino estrattivo del Paese dopo l’Elephant Field. È qui che fin dalla rottura istituzionale del 2014 si è situata la linea di contatto tra le forze della Cirenaica, guidate dal Generale Khalifa Haftar, e una Tripolitania retta dal Parlamento di Tripoli e dalle potenti milizie di Misurata. Con un terzo incomodo, il leader miliziano Ibrahim Jadhran che per anni ha guidato le Petroleum Facilities Guard (PFG), ovvero un gruppo semi-istituzionalizzato a cui è stata delegata la sicurezza degli impianti estrattivi e di stoccaggio di Zueitina, Agedabia, Ras Lanuf e Sidra. Jadhran ha saputo sfruttare il controllo esercitato sulla Mezzaluna Petrolifera come leva sui due principali centri di potere, cambiando rapidamente alleanze ogniqualvolta ragioni di mera convenienza lo richiedessero. Con l’inevitabile conseguenza nefasta sull’economia libica: produzione e export, tra l’estate 2013 e l’autunno 2016, hanno avuto un andamento altalenante, scendendo fino ad appena 200.000 barili al giorno, che è dipeso principalmente da decisioni unilaterali di Jadhran.
La conquista della Mezzaluna Petrolifera, da parte di Haftar, a fine 2016 ha temporaneamente tolto di mezzo l’incognita Jadhran ma non ha modificato sostanzialmente un quadro ancora profondamente incerto. Infatti, benché da allora la produzione sia tornata stabilmente su livelli attorno ai 900.000 barili al giorno, la mossa del Generale ha avuto una ricaduta politica decisiva, che lo ha avvicinato al suo obiettivo strategico: sottolineare il proprio ruolo militare all’interno dello scacchiere libico e avere una pesante dote da portare al tavolo dei negoziati per la stabilizzazione del Paese. Nel frattempo, infatti, la Comunità Internazionale e l’ONU avevano riconosciuto come legittimo il Governo di Unità Nazionale di Fayez al-Serraj, basato a Tripoli, a discapito dello stesso Haftar e delle istituzioni della Cirenaica.
Un obiettivo, quello di ottenere una patente di legittimità, che sta alla base anche dei più recenti avvenimenti in Libia. In quest’ottica la conferenza di Parigi del 29 maggio, organizzata da Macron (tra i principali sponsor del Generale), ha segnato un cambio di passo importante. Prima di tutto, perché ha definitivamente accreditato Haftar come interlocutore imprescindibile per la soluzione della crisi. Poi, perché ha accelerato il percorso elettorale, fissando a dicembre il voto per rinnovare il Parlamento (unificando le due Camere rivali di Tripoli e di Tobruk) e, soprattutto, per eleggere il Presidente. Quest’ultimo è un punto assai controverso, alla base delle tensioni tra Est e Ovest. Infatti, il blocco della Tripolitania non vuole che Haftar, alla guida del potente Esercito Nazionale Libico (in realtà un vasto ombrello di milizie), presentandosi alle elezioni, possa ottenere anche un ruolo politico che si sommerebbe a quello militare. Il timore dei rivali del Generale, in fondo, è che le urne diventino il suo trampolino di lancio per prendere il potere e trasformarsi in un nuovo Rais, magari guardando al modello dell’alleato egiziano al-Sisi. Va sottolineato che l’accelerazione impressa dalla Francia comporta dei rischi concreti per la stabilità del Paese. Secondo quanto emerso dal vertice di Parigi, infatti, le elezioni si potrebbero svolgere anche senza prima adattare la Costituzione, che non prevede alcuna figura di Capo dello Stato. Con il paradosso che il futuro Presidente non avrebbe alcun vincolo stabilito dalla Carta fondamentale. Inoltre, affrettare il voto senza prima aver gettato le basi politiche di una riconciliazione tra Est e Ovest rischia di riproporre la stessa situazione del 2014, quando fu proprio il rifiuto di riconoscere l’esito delle elezioni da parte degli sconfitti che causò la frattura tra Tripoli e Tobruk.
Non deve quindi stupire che, appena due settimane dopo, si sia verificato il più grave attacco nella Mezzaluna Petrolifera degli ultimi anni. Il 14 giugno il redivivo Jadhran insieme a milizie tribali ostili a Haftar e frange di gruppi jihadisti ha assaltato Sidra e Ras Lanuf, mettendo in fuga le truppe del Generale e devastando quasi tutti i siti di stoccaggio ancora operativi. L’offensiva aveva lo scopo di dimostrare l’incapacità di Haftar di proteggere gli asset strategici del Paese, in modo da minarne la credibilità internazionale e lasciare un segno tangibile come monito duraturo. La distruzione di parte delle infrastrutture (almeno tre delle cinque cisterne utilizzabili a Ras Lanuf) infatti ha dimezzato la produzione di petrolio, portandola intorno ai 550.000 barili al giorno. Con conseguenze immediatamente avvertite dalla popolazione locale, che ha patito lunghi blackout elettrici, un considerevole danno per l’erario (stimato in quasi 70 milioni di dollari al giorno) e, inevitabilmente, un aumento del nervosismo sui mercati internazionali.
Un nervosismo che ha toccato nuovi picchi dopo che Haftar, nel giro di una decina di giorni, è riuscito a cacciare Jadhran e a riprendere il controllo dell’area. Infatti, il 25 giugno il Generale ha annunciato di aver affidato la gestione della Mezzaluna alla Compagnia nazionale del petrolio (NOC) “separatista” con sede a Bengasi, a lui fedele ma priva di qualsiasi riconoscimento internazionale. Come se non bastasse, nei primi giorni di luglio ha reso effettivo il blocco delle esportazioni da Zueitina e Hariga, terminal funzionanti e non coinvolti negli scontri delle settimane precedenti. Una scelta chiaramente politica, che mira ancora una volta a aumentare la pressione sul Governo di Unità Nazionale di Tripoli. Se questo non è certo il clima migliore in cui pensare di svolgere elezioni nazionali, va sottolineato che l’operato di Haftar sembra agitare ancora una volta la minaccia di una secessione della Cirenaica. Infatti, se si dovessero verificare passi ulteriori e concreti in questa direzione, come la spaccatura definitiva della NOC e, a cascata, della Banca centrale libica che gestisce e redistribuisce i proventi degli idrocarburi, verrebbe probabilmente sancita una rottura irreparabile dell’unità del Paese. L’eventuale tentativo delle autorità della Cirenaica di commercializzare gli idrocarburi in autonomia, cioè senza passare da Tripoli, metterebbe la Comunità Internazionale di fronte a una situazione piuttosto complessa, soprattutto visto la forza e gli appoggi internazionali del Generale. Anche se l’intransigenza di Haftar è stata denunciata come inammissibile in un comunicato congiunto di Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti, non è inverosimile che la creazione di un’entità de facto autonoma in Cirenaica non possa trovare, nel prossimo futuro, una qualche forma di riconoscimento almeno da una parte della Comunità Internazionale.
Lorenzo Marinone è analista responsabile Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali