Con l’entrata in vigore della riforma del titolo V della Costituzione, l’art. 117 della Costituzione viene modificato in modo che contenga due elenchi con riferimento alla competenza legislativa dello Stato e delle Regioni. Uno per le materie di competenza esclusiva dello Stato. Uno per quelle di competenza concorrente Stato-Regioni.
L’evidente sovrapposizione (tra le altre) della materia “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” riservata allo Stato e quelle del “governo del territorio” e della “valorizzazione dei beni culturali e ambientali” attribuite alla competenza concorrente Stato-Regioni, ha reso conflittuale il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale in materia ambientale.
Tale difficile relazione tra l’esercizio delle rispettive competenze legislative ha generato un crescendo di conflitti detti “di attribuzione”, che ha trovato un primo punto di riferimento nella Sentenza della Corte Costituzionale n.407/2002, secondo cui sussisterebbe un “intreccio” di competenze sulla materia “tutela dell’ambiente” in base alla quale essa “non costituisce una materia in senso stretto dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché essa si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”.
Questo orientamento giurisprudenziale ha consentito il proseguimento della condivisione di competenze tra Stato e Regioni in tema di tutela dell’ambiente, nel senso statuito dall’allora vigente art. 1 comma 2 del d.lgs.n.22/1997 (c.d. decreto Ronchi), ove precisava la natura di legge quadro statale inderogabile della riforma in materia di rifiuti. Con l’entrata in vigore del cosiddetto testo unico ambientale, il Decreto Ronchi è stato abrogato, imponendo alle Regioni di adeguare i rispettivi ordinamenti alla disposizioni di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema contenute nella parte quarta del Testo Unico, senza però specificare nulla circa il riparto di competenze legislative Stato-Regioni.
Successivamente all’abrogazione del decreto Ronchi, con la pronuncia n.367/2007 in tema di paesaggio, la Corte Costituzionale (chiamata a risolvere l’ennesimo conflitto tra Stato e Regioni sul riparto di competenze relativo alla legislazione ambientale) individua come oggetto di tutela non il bene immateriale ambiente, bensì l’insieme dei beni materiali e delle loro composizioni che conferiscono al paesaggio un certo aspetto, tanto che “è evidente che sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti la fruizione del territorio, che sono affidati alle competenze regionali, concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali”. La Consulta indica, dunque, nello Stato il compito di assicurare in via unitaria la tutela ambientale e paesaggistica, con disposizioni che costituiscono un limite preciso all’esercizio delle competenze regionali in materia di governo del territorio e valorizzazione dei beni culturali, riconoscendo il “concorso” di più competenze sullo stesso oggetto (inteso come insieme di beni materiali) “ambiente”.
Con la sentenza n.378/2007 la Corte Costituzionale chiarisce ulteriormente che l’ambiente non deve essere considerato come bene immateriale, ma come un bene della vita, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia della qualità e degli equilibri delle sue singole componenti. Ne consegue che, “la potestà di disciplinare la tutela dell’ambiente nella sua interezza è stata affidata allo Stato dall’articolo 117 (…) il quale, come è noto, parla di ambiente in termini generali e onnicomprensivi”, mentre può spettare ad altri soggetti la tutela degli altri beni giuridici che, pur avendo ad oggetto aspetti del bene ambiente, riguardano interessi giuridici diversi.
Tale evoluzione del c.d. “diritto vivente” è stata recepita in modo espresso nel 2008 dalla legislazione statale, con l’inserimento nel d.lgs.n.152/2006 dell’art. 3 quinquies rubricato “principi di sussidiarietà e leale collaborazione”, il cui comma 1 recita: “i principi contenuti nel presente decreto legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell’ambiente su tutto il territorio nazionale”.
E’ in questo contesto di continuo conflitto Stato - Regioni che si sviluppa in concreto il sistema di pianificazione della gestione dei rifiuti, attualmente disciplinato dalla parte IV del d.lgs.n.152/2006, che accentua fortemente i compiti attribuiti allo Stato e, in particolare, al Ministero dell’ambiente.
Il testo unico ambientale prevede, infatti, la categoria degli “impianti di recupero e di smaltimento di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del paese” (art. 195 comma 1 lett. f), devoluta ad apposito programma, da approvarsi con Decreto del Presidente del Consiglio sentita la Conferenza Unificata Stato-Regioni, e da inserirsi nel documento di programmazione economica e finanziaria tra le infrastrutture e gli insediamenti strategici, prevedendo anche gli stanziamenti necessari per la loro realizzazione ed i contributi compensativi a favore degli enti locali interessati.
Rientrano inoltre tra le competenze dello Stato “l’indicazione dei criteri e delle modalità di adozione, secondo i principi di unitarietà, compiutezza e coordinamento, delle norme tecniche per la gestione dei rifiuti (…)”, che li adotta con decreti del Ministero dell’Ambiente nei modi indicati dall’art. 195 comma 4.
Risulta confermata tra le competenze statali anche quella di determinare i criteri qualitativi e quali -quantitativi per l’assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento, rimasta sostanzialmente inattuata nonostante il termine indicato nel c.d. codice delle leggi ambientali per l’adozione del relativo Decreto Ministeriale.
Allo Stato spetta anche l’esercizio dei poteri sostitutivi nei confronti degli enti inadempienti, tra i quali quello relativo alla mancata o ritardata adozione o adeguamento del piano regionale di gestione dei rifiuti (art. 199 comma 9).
Alle Regioni sono attribuite competenze fondamentali in materia di pianificazione (art. 196 - 199), in adempimento dell’obbligo comunitario (che incombe su ciascuno Stato membro) all’adozione dello strumento pianificatorio in materia di gestione dei rifiuti e che l’ordinamento italiano ha devoluto alle Regioni perché elaborassero ciascuna piani tarati sulla propria scala territoriale, nonché sul proprio fabbisogno.
I piani regionali prevedono (tra le altre cose), oltre all’analisi conoscitiva ed al censimento della rete di impianti esistenti e del fabbisogno, le “informazioni sui criteri di riferimento per l’individuazione dei siti e la capacità dei futuri impianti di smaltimento o dei grandi impianti di recupero”, nonchè “il complesso delle attività e dei fabbisogni degli impianti necessari a garantire la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di trasparenza, efficacia, efficienza, economicità e autosufficienza della gestione dei rifiuti urbani non pericolosi all’interno di ciascuno degli Ambiti Territoriali Ottimali (…)” (art. 199 comma 3 lett. b - d - g).
Sempre alle Regioni sono, inoltre, attribuite competenze fondamentali in materia di rilascio di autorizzazioni all’esercizio di impianti di smaltimento e recupero di rifiuti sia urbani che speciali, competenze che spesso vengono delegate con legge regionale alle Provincie o alle Città Metropolitane.
Con riferimento ai rifiuti urbani, agli Ambiti Territoriali Ottimali (aree territoriali nate come unioni di Comuni e che, progressivamente e gradualmente, stanno assumendo ampiezza coincidente con il territorio regionale) continuano ad essere devolute le competenze già spettanti agli enti locali in esecuzione di quanto previsto dal piano regionale al fine di organizzare il servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani teso a garantire l’autosufficienza territoriale della gestione stessa in ossequio anche al principio di prossimità (art. 200 comma 1 lett. a).
Nel dicembre del 2017 e con riferimento ai soli rifiuti urbani ed assimilati, sono state inoltre attribuite importanti funzioni di regolazione e controllo alla già AEEGSI. (Autorità per l’energia elettrica il gas e sistema idrico) oggi divenuta ARERA. (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) proprio a fronte delle competenze aggiunte alla fine del 2017.
Non avendo ad oggi la nuova Autority adottato alcun provvedimento in materia di rifiuti, non è ancora possibile analizzare la ricaduta che la sua attività avrà sulle competenze attualmente attribuite a Stato e Regioni nella stessa materia.
Il quadro delle competenze in materia di rifiuti è certamente complesso ed articolato, in quanto complessa ed articolata è la gestione in concreto della filiera del rifiuto che, nell’attuale prospettiva comunitaria, tende ad essere circolare, ovvero volta a garantire la riduzione al minimo dello scarto non recuperabile e dunque destinato inevitabilmente allo smaltimento, ed al contempo a massimizzare il recupero dei materiali dai rifiuti prodotti e la loro ulteriore immissione nelle filiere industriali (c.d. ciclo dalla culla alla culla).
Tale sistema di gestione è complesso ed articolato in quanto non può prescindere, oltre che dalla progettazione di prodotti corrispondenti a standard dati (esempio: privi di determinate sostanze considerate pericolose o di ostacolo al recupero; limitazione delle plastiche non recuperabili ecc.), anche dall’organizzazione di un sistema di gestione dei rifiuti che va dalla raccolta e trasporto, fino alla filiera degli impianti di recupero ed all’esercizio di quelli di smaltimento, tale da garantire il raggiungimento dell’obiettivo.
Fondamentale però, nell’ottica di realizzare in concreto la sostenibilità ambientale, è che le competenze non restino prigioniere di contrapposizioni commisurate all’interesse di pochi che guardano in basso e solo al proprio giardino (effetto Nimby), bensì vengano esercitate traendo ispirazione dalla visione di chi traguarda l’orizzonte in perenne ricerca del meglio sebbene rischioso ed inesplorato, dove il mare non si distingue dal cielo.