La produzione di elettricità, sostanzialmente a partire dal Dopoguerra, è stata resa possibile soprattutto grazie allo sfruttamento delle risorse di origine fossile (petrolio, gas e carbone) che hanno alimentato le grandi centrali termoelettriche fino ai giorni nostri. Il carbone, in maniera particolare, ha giocato un ruolo da protagonista nell’elettrificazione del pianeta, grazie alla facilità di trasporto e al costo relativamente contenuto rispetto ad altre fonti. Il rovescio della medaglia, di cui tuttavia si è preso coscienza troppo tardi, è che questa modalità di produzione elettrica ha un costo decisamente troppo elevato in termini di emissioni inquinanti.
Negli ultimi anni si è parlato molto della possibilità di ottenere un carbone “pulito”, soprattutto attraverso la tecnologia CCS, ossia il confinamento dell’anidride carbonica prodotta dai processi industriali nel sottosuolo, che permetterebbe di continuare a bruciare carbone abbattendo però le emissioni prodotte dalla sua combustione. In quest’ottica, il carbone è rimasto una fonte importante nel mix energetico e addirittura, per un breve periodo successivo all’incidente nucleare di Fukushima, si è assistito in Europa e nel mondo a una ripresa della sua domanda per usi energetici.
Più di recente, però, a seguito degli accordi internazionali sul clima di Parigi e ai nuovi obiettivi europei in materia di energia e ambiente, la possibilità di “ripulire il carbone” è decisamente passata di moda. La nuova parola d’ordine, richiesta dalla totalità dei movimenti ecologisti e non solo, è quella del phase out, ossia della rinuncia completa degli Stati all’impiego del carbone come fonte di generazione elettrica. Una possibilità che, a differenza del passato, non appare più un’utopia, in particolare in Europa, dove si riscontra un progressivo incremento del peso delle energie rinnovabili. Proprio nel 2017, nel Vecchio Continente si è assistito a uno storico sorpasso, con le cosiddette energie pulite (eolico, solare e biomasse) che hanno superato carbone e lignite nella generazione elettrica. Inoltre, le centrali elettriche a carbone stanno progressivamente invecchiando in tutta Europa, e oltre la metà di esse rischiano comunque di essere dismesse prima del 2030 perché obsolete e/o poco efficienti dal punto di vista ambientale. Se a questo aggiungiamo il ruolo di capofila che l’Unione europea ha assunto nella lotta ai cambiamenti climatici, è facile capire come mai in questa fase storica molti Stati membri stiano ufficializzando le date del proprio totale affrancamento dal carbone.
In alcuni paesi l’addio si è già consumato. È il caso del Belgio, che nel 2016 ha completamente arrestato le proprie centrali. Altri si stanno impegnando concretamente verso la stessa direzione: la Francia mira a completare il phase out entro il 2022, mentre la Gran Bretagna ha nel mirino il 2025. Sembrano essere della partita anche Finlandia, Portogallo, Irlanda, Austria, Svezia e Danimarca, ma a fare la differenza – sia in termini politici che ambientali – potrebbe essere la Germania, che ha basato buona parte del proprio fabbisogno energetico su questa risorsa. Il nuovo Governo Merkel ha addirittura creato un’apposita commissione per studiare il concreto phase out, che comunque non sarà immediato: l’obiettivo è di dimezzare al 2030 l’attuale capacità a carbone.
Consumo di carbone nei principali paesi dell’Unione europea nel 2016 (mil. tep)
Fonte: elaborazioni su dati WEO 2017
Al di fuori dall’Europa, impegni di questo tipo sono stati assunti da Cile, Messico e Nuova Zelanda, mentre come si sa gli Stati Uniti di Trump vanno in direzione opposta.
E l’Italia?
Nel nostro paese, già dagli anni Novanta il carbone non è la fonte principale nella generazione elettrica, che oggi dipende principalmente dal gas naturale. La quota del carbone nel mix di generazione varia tra il 12 e il 16%, ma contribuisce per circa il 40% alle emissioni climalteranti del settore elettrico (fonte WWF). Per questo motivo il phase out dell’Italia al carbone è meno complicato che in altri Paesi e già negli anni scorsi anni era stato parzialmente anticipato dalle decisioni di alcuni operatori elettrici che, in linea con le politiche comunitarie, avevano annunciato la progressiva chiusura dei vecchi impianti a carbone. Dallo scorso autunno, con la pubblicazione della Strategia Energetica Nazionale (SEN) prima, e con l’adesione alla Powering Past Coal Alliance poi, l’Italia ha definito una data precisa per il proprio addio al carbone: si tratta del 2025, dunque in linea con quanto annunciato da diversi Paesi europei e in anticipo rispetto alla data inizialmente prevista del 2030. La consultazione dei vari stakeholders che ha accompagnato la stesura della SEN, infatti, ha fatto definitivamente puntare su questa data, scelta che, proprio secondo il documento strategico, dovrebbe consentire di evitare al nostro Paese l’emissione di cento milioni di tonnellate di CO2 .
In buona sostanza, dunque, entro i prossimi sette anni il sistema energetico nazionale dovrà fare a meno degli 8 GW di capacità elettrica attualmente assicurati dagli impianti a carbone operativi. Ovviamente, in qualche modo, questi GW dovranno essere rimpiazzati e la linea della SEN è abbastanza chiara: le rinnovabili, per quanto importanti, non basteranno, anche perché non sono ancora in grado di assicurare una produzione 24 ore su 24 come i combustibili fossili. L’uscita del carbone in Italia dovrà dunque essere accompagnata da ulteriori investimenti nel gas e nelle infrastrutture elettriche di nuova generazione, in modo da garantire la stabilità della rete nazionale.