A metà ottobre la riconquista di Kirkuk da parte delle forze speciali irachene ha sancito un aumento repentino del prezzo del petrolio. Possibili interruzioni nei flussi verso il porto turco di Ceyhan – poi verificatesi regolarmente nell’ordine di 275.000 bbl/g – avevano messo in allerta i mercati. Reazioni simili si erano avute qualche giorno prima, quando il Presidente Trump aveva sconfessato l’accordo nucleare iraniano aprendo a nuove sanzioni per Teheran a partire dal 2018. A inizio novembre è stato il turno delle purghe del Principe Saudita Mohammed bin Salman che hanno provocato un altro trend rialzista, mentre lo spettro default del Venezuela aveva generato una reazione più timida da parte degli operatori.

Il rally degli ultimi due mesi mostra un andamento dei prezzi sensibile agli eventi di politica internazionale, nonché un ritorno del geopolitical risk premium sui mercati petroliferi. Era da quasi tre anni che i fattori geopolitici non avevano effetti di rilievo, nonostante restasse alta la percezione del rischio in diversi scenari critici come quello libico o nigeriano. I movimenti rialzisti iniziati l’estate scorsa e continuati per tutto l’autunno rendono difficile capire dove finiscano i meriti del taglio dell’output deciso un anno fa in seno all’Opec Plus e dove inizino le reazioni correlate a tensioni geopolitiche classiche di diretta minaccia all’approvvigionamento.

Un insolito weekend di instabilità a Riad

Per capire se il rischio geopolitico è tornato ad essere una variabile nell’andamento dei prezzi del petrolio bisogna tornare agli eventi avvenuti in Arabia Saudita nel primo week-end di novembre quando, a partire da sabato 4, la commissione anticorruzione presieduta dall’erede al trono Salman ha deciso l’arresto di diversi membri della famiglia reale, ex e attuali ministri, uomini d’affari e ufficiali militari. Una resa dei conti che ha accelerato il consolidamento del potere nelle mani del principe. Nello stesso giorno, un razzo proveniente dallo Yemen e diretto all’aeroporto della capitale è stato intercettato dal sistema antimissile saudita. Sempre nella giornata di sabato, a sorpresa, il premier libanese Hariri ha annunciato le proprie dimissioni da Riad. Hariri ha chiamato in causa l’Iran per la sua eccessiva ingerenza nel mondo arabo, una denuncia che si somma alle accuse da parte dell’Arabia Saudita di “aggressione militare” per aver fornito il vettore missilistico ai ribelli armati yemeniti Houthi. I riflessi sui mercati di un weekend così foriero di instabilità sono stati importanti, con Brent e WTI che hanno guadagnato nella seduta di lunedì oltre il 3%. Si tratta, tuttavia, di un aumento contenuto, che in altri tempi, come ha fatto notare l’editorialista di Bloomberg Liam Denning, sarebbe risultato molto più marcato.

In visione prospettica, anche la politica di modernizzazione del Paese lanciata dal principe Salman potrebbe avere dei risvolti rilevanti sui mercati. Il suo ambizioso programma di riforme noto come “Vision 2030” prevede di trasformare il Regno in una potenza industriale avanzata, svincolando l’economia dagli idrocarburi. Per mettere in pratica questo processo di trasformazione serve un forte gettito di entrate, ed è il motivo per cui a Riad interessa mantenere alti i prezzi del greggio in questo momento. Un secondo motivo riguarda la quotazione di Saudi Aramco, il gioiello di famiglia, la cui posizione agli occhi degli investitori va migliorata in vista del prossimo collocamento in borsa del 5% delle sue azioni. Sarà questione di geopolitica finanziaria decidere dove quotarla, come dimostra la candidatura della Borsa di New York ufficializzata dallo stesso Trump su twitter.

Iran: tra confronto improbabile e rischio sanzioni

Un fattore di rischio geopolitico avvertito, invece, solo parzialmente dai mercati è la recrudescenza della rivalità, lunga in realtà tredici secoli, tra componente sciita e sunnita dell’universo musulmano. Una frattura settaria, incarnata su base etnica nella contrapposizione storica tra mondo persiano e mondo arabo. La guerra mai dichiarata tra Arabia Saudita e Iran trova sfogo in una serie di proxy war combattute in tutta la regione, dallo Yemen all’Iraq, passando per la Siria.

Arabia Saudita vs Iran: una proxy war in Medio Oriente

Fonte: The Maghreb and Orient Courier

Tuttavia, dal momento che si tratta ancora solo di guerre per procura e non di un confronto terreste diretto che potrebbe mettere a rischio gli approvvigionamenti di greggio, gli effetti di tali rivalità sul mercato petrolifero sembrano marginali se non addirittura nulli.

Al contrario, un impatto più importante potrebbe averlo la decisione di Trump di stracciare l’accordo sul nucleare e imporre nuovamente sanzioni all’Iran. Resta al momento un’ipotesi: la strategia dell’amministrazione è ancora incerta, né si sa come reagirebbe il Congresso. Tuttavia, in caso di sanzioni, a risentirne sarebbe sicuramente l’output petrolifero del paese - a fatica incrementato di circa 1 milione bbl/g in seguito all’accordo siglato nel 2016 con Obama - che sul lungo periodo risentirebbe del fatto di non poter contare su investimenti e soprattutto tecnologie occidentali, fondamentali per rimettere in efficienza gli impianti, aumentare la propria offerta e recuperare le quote di mercato perse tra il 2012 al 2015.

Le questioni curda e venezuelana

Altrettanto delicate e avvertite come fattore di rischio, le tensioni nel Kurdistan iracheno: in caso di escalation, sarebbe compromessa una produzione di circa 600.000 bbl/g di greggio esportato in Europa attraverso la Turchia e proveniente dal governatorato di Kirkuk. Quest’area, infatti, - ricca di giacimenti petroliferi - continua ad essere contesa tra il governo centrale dell’Iraq e indipendentisti curdi. Ne è testimonianza l’attacco delle forze speciali irachene che nella notte tra il 15 e 16 ottobre 2017 hanno ripreso il controllo di Kirkuk, dal 2014 sotto il controllo dell’esercito curdo, i peshmerga, generando tensioni e insicurezza tra le due fazioni. Ad appoggiare le istanze dei curdi iracheni c’è Rosneft, che aveva firmato una settimana prima del contestato referendum un’intesa per costruire una rete di gasdotti fino al territorio turco.

Lo stesso colosso energetico russo sta inoltre appoggiando il controverso governo di Maduro, in Venezuela, a suon di prestiti miliardari. La compagnia statale venezuelana Pdvsa ha strappato l’anno scorso un prestito da un miliardo e mezzo di dollari alla compagnia russa, che a sua volta ha ottenuto in garanzia metà della statunitense Citgo (filiale dell'impresa petrolifera di Stato, Pdvsa). L’interesse della Rosneft muove dal fatto che il greggio venezuelano, dopo quello russo, costituisce la principale fonte di approvvigionamento della compagnia. Anche il Cremlino, coinvolto nella ristrutturazione del debito di Caracas, è esposto alla tempesta venezuelana (così come Pechino) e potrebbe trovarsi in mano crediti inesigibili in caso di default.

I mercati non sembrano al momento influenzati da questa fonte di instabilità geopolitica, ma nel medio-lungo periodo il crollo del debito potrebbe avere conseguenze disastrose per il Paese, conseguenze che in parte sta già toccando con mano: a ottobre si è registrata la produzione petrolifera più bassa degli ultimi 28 anni. L’Opec stima che l’output sia crollato di 500.000 bbl/g negli ultimi anni, mentre secondo uno studio di Rystad Energy il calo potrebbe essere di 800.000 bbl/g tra il 2018 e il 2021. È proprio l’industria petrolifera venezuelana a essere in crisi: la diminuzione di investimenti sta portando a trascurare la manutenzione degli impianti. A risentirne è la qualità del greggio venezuelano, ma anche la capacità estrattiva del Paese che può contare sulle maggiori riserve al mondo.

È tornata la geopolitica?

In conclusione, il rischio geopolitico sembrerebbe essere tornato una variabile di incremento dei prezzi, seppur parziale e non determinante. Per alcuni analisti è lecito aspettarsi piccoli rialzi, piuttosto che veri e propri shock causati da eventi di rilevanza geopolitica. Ma non tutti sono d’accordo. Joe McMonigle, analista di Hedgeye e con un passato da capo dello staff del Dipartimento di energia americano, ritiene che una combinazione di tre fattori (tensioni Riad-Teheran, sanzioni Iran e interruzioni sporadiche nel Kurdistan) potrebbe portare anche a picchi di 90 dollari al barile. Anche secondo Amrita Sen, analista di Energy Aspect, la geopolitica è tornata a contare.