Le guerre che sconvolgono l’Iraq e la Siria, l’anarchia tribale libica, gli sconvolgimenti politici succeduti alla cosiddetta “primavera araba” e il riaccendersi del conflitto settario tra musulmani sciiti e sunniti, che alimenta e rafforza le organizzazioni terroriste, stanno cambiando la faccia del Medio Oriente, arrivando persino a rimettere in discussione i confini tracciati dopo la fine dell’impero ottomano.

Alcune potenze regionali sono direttamente impegnate in una dura competizione, nel tentativo di allargare la loro influenza e soprattutto di impedire che i loro rivali conquistino il controllo dei nuovi equilibri locali. Tra loro spiccano la Turchia, l’Iran e l’Arabia Saudita, ma sono attivi anche molti altri attori di minor peso quali gli Emirati Arabi del Golfo, l’Egitto, la Giordania e, più indirettamente, i paesi del Maghreb. Israele, la Russia e gli Stati Uniti sono variamente coinvolti sul terreno, anche con presenze militari nelle immediate vicinanze (Somalia, Gibuti, Afghanistan), così come l’islamico Pakistan, ma cresce la presenza di altre potenze esterne, in primo luogo quella della Cina.

La guerra in corso in Yemen (e in minor misura gli scontri tra fazioni libiche) sono, assieme alla Siria e all’Iraq, i campi di battaglia principali. Gli allineamenti non sono sempre chiari o univoci. In particolare nel campo sunnita, il più ricco e popoloso, esistono importanti divisioni che alimentano il dissenso, il terrorismo e la repressione.

Una semplificazione, sposata dall’attuale governo israeliano e dalla nuova amministrazione americana, vede nel ridimensionamento e nella sconfitta dell’Iran la via maestra per arrivare ad un nuovo ordine mediorientale. Di fatto però il campo anti-iraniano è tutt’altro che omogeneo, percorso da forti rivalità come ad esempio quelle tra i partiti dei Fratelli Musulmani e le altre identità settarie sunnite, tra la Turchia e l’Arabia Saudita, o tra gli Emirati. Inoltre ciò non tiene nel debito conto i crescenti interessi della Russia (e della Cina) nella regione.

E’ anche molto dubbio che un ridimensionamento dell’Iran possa contribuire ad una conclusione positiva del conflitto arabo-israeliano, oggi apparentemente meno visibile dati gli emergenti conflitti inter-islamici, ma domani, ove tali conflitti dovessero diminuire di intensità, destinato certamente a riemergere. Né un conflitto con l’Iran mancherebbe di avere effetti negativi nella già fragile situazione afgana, trascinando nella crisi altri paesi interessati a quella situazione, come la Cina e soprattutto l’India (con un possibile riacutizzarsi del conflitto tra India e Pakistan).

Tutto ciò alimenta anche le preoccupazioni degli europei, oggi impegnati con la Nato, a fianco degli Stati Uniti, in Afghanistan, Iraq e Siria, ma anche profondamente interessati ad una normalizzazione dei rapporti con l’Iran e ad un consolidamento delle tendenze politiche moderate in quel paese. Gli europei sono, assieme alla Russia e agli Usa, parte dell’accordo sul nucleare raggiunto con Teheran. L’apparente tentazione americana di rimettere in discussione tale accordo, che sino ad oggi sembra aver funzionato, è un altro segnale del grave disagio causato nelle relazioni transatlantiche dalle posizioni assunte dal Presidente Donald Trump durante il suo recente viaggio in Medio Oriente e in Europa. Il pericolo di un brusco aumento dell’instabilità in Medio Oriente e in Africa, unito alle preoccupazioni per le iniziative offensive di Mosca (in campo politico, militare e cibernetico) spingono gli europei ad assumere posizioni divergenti da quelle americane e contribuiscono ad accrescere la complessità dei conflitti medio orientali.

Un eccesso di semplificazione ha già portato in passato a gravi errori che hanno alimentato i conflitti attualmente in corso, ad esempio quando gli Stati Uniti pensarono che la fine del regime di Saddam Hussein in Iraq sarebbe divenuta la chiave di volta di un nuovo ordine, più pacifico e democratico, in Medio Oriente. Ripetere oggi gli stessi errori, sia pure seguendo strade diverse, non sembra una buona idea: al contrario potrebbe destabilizzare definitivamente questa regione chiave degli equilibri energetici globali.