Il settore energetico è quello più esposto alle opposizioni. La conferma arriva dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Media Permanente Nimby Forum®. Dei 342 impianti oggetto di contestazione in Italia nel 2015, il 52,33% delle rilevazioni totali riguardava proprio i progetti inerenti l’energia. Tra i dati più rilevanti, la crescita significativa – dal 14,6% del 2014 al 18,6% del 2015 – delle opere contestate in ragione di un deficit di coinvolgimento o di iter autorizzativi farraginosi e contorti. A farne le spese diversi progetti di produzione energetica, senza distinzione tra fonti rinnovabili e non. Di seguito alcuni degli esempi più significativi.
L’eolico off-shore in Italia fermato dall’incertezza normativa
Contrariamente a quanto avviene in altri paesi dell’Unione europea - come la Francia, la Spagna e la Germania - che si sono dotati di procedure chiare e trasparenti per la gestione dei progetti, in Italia per gli impianti eolici off-shore manca certezza normativa: non esistono regole per valutare i progetti, per escludere le aree da tutelare, per informare i cittadini; in mare non valgono neanche le linee guida approvate per gli impianti a terra.
A ripercorrere il mancato sviluppo dell’eolico offshore in Italia è stata Legambiente che in un dossier ha raccolto le storie travagliate di 15 progetti, presentati tra il 2006 e il 2013. L’assenza di regole chiare - scrive l’associazione - è tale per cui le Soprintendenze hanno bocciato progetti eolici off-shore posizionati a diversi chilometri dalla costa o, addirittura come a Taranto, posti di fronte all’impianto siderurgico dell’Ilva. Tutti i progetti presentati si sono quindi scontrati con problemi di autorizzazione da parte di enti locali, Regioni, Soprintendenze e Ministero dei Beni culturali, anche in caso di Valutazione d’impatto ambientale (VIA) positiva. L’unica possibilità rimane allora la decisione del Consiglio dei Ministri, per dirimere i contrasti tra gli organi dello Stato.
La storia più emblematica è quella del primo progetto, presentato nel 2006, al largo delle coste del Molise e bocciato dal governo. Nove anni di procedure, una VIA favorevole, ma bloccato dal ricorso della Regione Molise e dal parere contrario del Ministero dei Beni Culturali. Il Consiglio di Stato aveva assegnato la scelta finale al Consiglio dei Ministri. Tuttavia, con una lettera del maggio 2015, la Presidenza del Consiglio ha comunicato di non occuparsi della questione e che il progetto doveva ripartire da zero. Non migliore fortuna hanno avuto diversi progetti al largo delle coste pugliesi, rimasti sulla carta come nel caso di Manfredonia. Nel 2013 quando il Comitato Via Regionale si espresse con parere negativo rispetto all'installazione di 85 aerogeneratori della potenza nominale di 4MW ciascuno a largo di Manfredonia, l’allora Assessore regionale alla Qualità dell’Ambiente Lorenzo Nicastro, a commento della notizia, disse: “Il nostro territorio ha abbondantemente fatto la sua parte quanto ad energie rinnovabili. Siamo chiamati ad essere attenti e parsimoniosi rispetto al futuro in questo delicato campo, soprattutto in totale assenza di un quadro di riferimento certo per il nostro Paese”.
L’opposizione alla riapertura della centrale di Vado Ligure
Nel 2014 l’ipotesi di riapertura della centrale a carbone di Vado Ligure, oggetto di sequestro preventivo da parte della Procura di Savona, fece scattare l’opposizione da parte di Greenpeace, Legambiente e WWF. La materia del contendere - scrivevano le associazioni - è la proposta di interventi da parte dell’azienda, la Tirreno Power, per ottenere la riapertura della centrale, dopo le recenti indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Savona sugli impatti sanitari ed ambientali e il conseguente decreto di sequestro dei due gruppi a carbone da parte del Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Savona. Greenpeace, Legambiente e WWF ritenevano che il nuovo assetto impiantistico proposto non prevedesse affatto l’adeguamento delle emissioni dell’impianto a quelle associate alle migliori tecnologie disponibili (cd. best available techniques - BAT) previste dal documento europeo sui grandi impianti di combustione (cd. Bref) per gruppi alimentati a carbone.
In quel caso, così come è accaduto in situazione analoghe, le esigenze ambientali si sono incrociate con quelle occupazionali. Le associazioni ambientaliste comprendevano l’esigenza dei lavoratori di mantenere il posto di lavoro, ma questo non poteva avvenire facendo “riaprire una centrale vecchia e inquinante che usa il combustibile più dannoso per salute, clima e ambiente” (il carbone NdA) e invitavano il sindacato a ripensare insieme “il futuro di questi siti produttivi, puntando sull’innovazione energetica che può garantire risvolti occupazionali più duraturi nel tempo”.
La vicenda arriva a conclusione nel giugno 2016 con la decisione della Tirreno Power di chiudere i gruppi a carbone di Vado Ligure: “Il consiglio di amministrazione - si legge in una nota dell’azienda - ha stabilito che non ci sono le condizioni per prevedere la ripartenza dopo oltre due anni di sequestro giudiziario. A distanza di 27 mesi dal sequestro in cui sono venute progressivamente a mancare anche le infrastrutture logistiche indispensabili per l’esercizio dei gruppi alimentati a carbone, il contesto sociale è profondamente mutato: l’uscita dalla produzione a carbone di energia elettrica è un obiettivo annunciato dal Governo, dalle istituzioni locali ed è anche nelle attese della popolazione”.
Nel mirino (anche) le centrali a biomasse
Tornando al campo delle fonti rinnovabili, ad essere oggetto di contestazioni sono spesso gli impianti a biomassa. L’ultimo in ordine di tempo è quello di Jesce tra Altamura e Matera dove il Comitato Vivi Jesce - nato su iniziativa di imprenditori, lavoratori, semplici cittadini e associazioni imprenditoriali con lo scopo di tutelare il patrimonio ambientale, storico-culturale e imprenditoriale della zona Jesce - contesta la localizzazione scelta per l’impianto perché nell’area sono presenti imprese agroalimentari, aziende agricole e turistiche e anche la storica Masseria Jesce sull’Appia Antica. Il Comitato, che sottolinea di non essere pregiudizialmente contrario al progetto imprenditoriale, “chiede che il Comune individui un’altra area idonea”. Come spesso accade quando si parla di biomasse, c’è il timore che questi tipi di impianti possano trasformarsi in “inceneritori”. Su questa possibilità, il sindaco di Altamura, Giacinto Forte, intervistato da un quotidiano locale, ha rassicurato che “nell'impianto saranno bruciati solo scarti di legname provenienti per altro da tre falegnamerie altamurane” e ha spiegato che le macchine e i forni contenuti nella struttura “non consentono di bruciare alcun altro tipo di materiale”.
Non solo contestazioni
Di segno opposto, invece, il caso della centrale di Bastardo in Umbria dove Regione ed Enel hanno avviato un percorso, “improntato sul dialogo e sulla trasparenza anche con il coinvolgimento delle Organizzazioni Sindacali”, per immaginare insieme il futuro del sito industriali nel contesto del progetto Futur-E, il progetto di Enel su 23 impianti termoelettrici fuori produzione la cui destinazione futura, sottolinea l’azienda, “sarà decisa in collaborazione con i territori nel segno dell'innovazione e della sostenibilità ambientale”.
L’accordo firmato lo scorso novembre prevede che Regione Umbria ed Enel, mettendo a disposizione le rispettive strutture, sviluppino ogni forma di sinergia possibile per sostenere la progettualità necessaria a promuovere lo sviluppo e la riqualificazione delle aree interessate. Per quanto riguarda la centrale di Bastardo, l’azienda si impegna a promuovere un bando utile all’acquisizione di progetti di reindustrializzazione e riqualificazione la cui valutazione sarà effettuata in collaborazione con le rappresentanze istituzionali e riguarderà la sua sostenibilità economica, ambientale e sociale.