È stato raggiunto un accordo tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea: a fronte della minaccia di dazi del 30% annunciata da Trump, Bruxelles ha accettato l’introduzione di dazi al 15% su una serie di esportazioni europee, con alcune eccezioni settoriali. In cambio, non verranno applicate ritorsioni. Un’intesa giudicata da molti deludente per l’Europa, soprattutto se confrontata con l’accordo ottenuto dal Regno Unito. Ma come si spiega questa scelta? È il frutto di una strategia negoziale sbagliata o di una valutazione più ampia dei costi politici ed economici interni?
Facciamo un passo indietro. Quando, il 2 aprile, Trump impose i cosiddetti "dazi del giorno della liberazione", l’intento dichiarato era chiaro: ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti e proteggere il settore manifatturiero americano. Molti, però, sospettavano che quei dazi fossero solo uno strumento negoziale per ottenere concessioni su altri fronti. Dopotutto, i primi dazi su Canada e Messico erano stati revocati dopo alcune misure adottate da questi paesi per ridurre il traffico di fentanyl. Ora, dopo più di tre mesi di trattative, rilanci e accordi con alcuni paesi, sembra che gli Stati Uniti abbiano davvero scelto la strada della chiusura commerciale, con dazi più alti e strutturali.
Perché lo fanno? I dazi fanno aumentare i prezzi dei beni importati, rendendo più cari per i consumatori statunitensi i prodotti esteri. Questo può anche permettere alle imprese americane, protette dalla concorrenza internazionale, di alzare i loro prezzi. Allo stesso tempo, lo Stato incassa un gettito fiscale. Ma questa politica ha senso solo se i dazi vengono pagati almeno in parte dalle imprese straniere, cioè se queste accettano di ridurre i propri margini pur di restare sul mercato americano.
Facciamo un esempio pratico. Se un produttore di Parmigiano Reggiano vende un kg negli Stati Uniti per 20 euro e Trump impone un dazio del 30%, il produttore potrebbe aumentare il prezzo per coprire interamente il dazio, trasferendo così il costo sui consumatori americani, oppure decidere di assorbire in parte (o completamente) il dazio riducendo i propri profitti. Nell’ipotesi estrema, se il produttore mantenesse il prezzo invariato a 20 euro, dovrebbe pagare 6 euro di dazio interamente dai propri profitti, senza alcun aumento per i consumatori americani. In tal caso, gli USA guadagnerebbero direttamente a scapito dell'Italia.
Perché gli Stati Uniti possono permetterselo? Perché sono un mercato grande. Perdere quote negli USA è molto costoso per gli esportatori esteri, che sono disposti a ridurre i propri margini per restare competitivi. Se un paese più piccolo imponesse lo stesso dazio, i produttori stranieri lo scaricherebbero interamente sui prezzi, sapendo che perdere quel mercato ha un impatto minore.
Secondo i manuali di economia, ai dazi si risponde con controdazi. Perché? Perché se gli Stati Uniti ottengono vantaggi imponendo dazi alle imprese europee, allora anche l’Europa – essendo un grande mercato – può fare lo stesso. Questo crea un deterrente: se gli USA non guadagnassero più dai dazi a causa delle ritorsioni, potrebbero accettare una situazione con meno dazi.
È esattamente ciò che mostriamo in un nostro studio appena accettato dal Journal of International Economics. I risultati della nostra simulazione indicano che i vantaggi per gli Stati Uniti spariscono completamente se gli altri paesi rispondono con contromisure, anche nel caso in cui a rispondere fossero solo l’Unione Europea e la Cina.
Il concetto è semplice: senza ritorsioni, gli USA potrebbero ottenere un piccolo guadagno (vedi fig. in alto). Con ritorsioni coordinate, ci rimettono (vedi fig, in basso). Nello scenario di una guerra commerciale totale, gli Stati Uniti subirebbero una perdita di benessere di quasi il 3,8%. Il commercio globale si ridurrebbe dell’11% rispetto al PIL e l’occupazione mondiale calerebbe dell’1,1%. Anche i paesi che reagiscono con contromisure limitano i danni, ma non li azzerano: le perdite per molti partner rimangono tra il 3% e il 7% del benessere.
Effetti dei dazi statunitensi sul benessere senza ritorsioni (in alto) e con ritorsioni (in basso)

Fonte: Elaborazione dell’autore
Questa è una logica che l’Unione Europea ha sempre compreso e usato nei negoziati. Durante la Brexit, ad esempio, non ha mai accettato di concedere al Regno Unito accesso al mercato unico senza l’accettazione degli altri pilastri dell’Unione, come la libertà di movimento dei lavoratori. Eppure ora ha accettato un accordo più debole, sulla falsariga di quello firmato con il Giappone. Perché?
Una delle ragioni principali potrebbe essere la solita: l’UE è forte economicamente ma debole politicamente. I 27 paesi dell’UE non parlano con una voce sola. Negli USA o in Cina, le perdite di singoli stati o province non bloccano le decisioni centrali. In Europa sì. E questo ha ragioni economiche precise.
Nel nostro studio mostriamo come i paesi più esposti agli USA – come Irlanda e Germania – avrebbero più da perdere. Altri (Italia inclusa) subirebbero impatti più moderati, e alcuni potrebbero persino trarne qualche beneficio, assorbendo parte delle esportazioni tedesche vendute a prezzi più bassi deviate dagli USA. Con le ritorsioni, le perdite si ridistribuiscono: chi perdeva di più perde meno, chi meno perde un po’ di più. Ma anche i benefici di una risposta coordinata non sono distribuiti equamente. Per di più, non è chiaro come sarebbero stati gestiti e redistribuiti i ricavi fiscali legati ai dazi: l’assenza di un meccanismo comune europeo per compensare le perdite nei settori più colpiti avrebbe lasciato i paesi maggiormente danneggiati senza garanzie di ristoro.
L’Italia si trova in una posizione intermedia. Il nostro studio stima per il nostro paese una perdita di benessere dello 0,2% e una riduzione dell’occupazione dello 0,1% con i dazi preventivati il 2 aprile. E pertanto, con i dazi al 15% come da nuovo accordo, le perdite saranno ancora più ridotte. È vero che gli Stati Uniti sono un mercato importante per l’Italia, ma rappresentano solo circa il 10% dell’export, che a sua volta vale il 30% del PIL. Quindi le imprese che esportano molto verso gli Stati Uniti risulterebbero penalizzate, ma l’effetto complessivo sull’economia italiana rimarrebbe limitato.
Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, un accordo – anche svantaggioso – potrebbe almeno ridurre l’incertezza, oggi ai massimi storici. E meno incertezza può significare più investimenti, anche se alcuni potrebbero andare proprio negli USA per aggirare i dazi. Inoltre, un’intesa con gli Stati Uniti potrebbe rafforzare la cooperazione su altri fronti, come la NATO o la difesa europea, temi tornati centrali mentre cresce la spesa militare. Forse è su questi tavoli che l’UE vuole ottenere garanzie, anche a costo di cedere qualcosa sul commercio. Per finire, evitiamo l’aumento dei prezzi che sarebbe seguito alla ritorsione.
In ogni caso, con o senza accordo, sembra chiaro che gli Stati Uniti vogliano ritirarsi dal ruolo di garante dell’ordine commerciale mondiale. L’Unione Europea ha oggi l’occasione – e forse il dovere – di assumersi questa responsabilità: rispettare gli accordi esistenti, siglarne di nuovi e continuare a difendere le regole dell’OMC, che Washington sembra aver abbandonato.



















