Quello dei dazi è un tema centrale per l’amministrazione Trump, sia per il suo valore pratico, sia per il significato simbolico che gli è stato attribuito già in campagna elettorale. Negli intenti del Presidente, una aggressiva politica di dazi dovrebbe svolgere un ruolo importante nel rimettere in sesto i conti pubblici, portando capitali nelle casse dello Stato, favorendo il rientro del deficit commerciale, promuovendo il reshoring e aprendo ai beni e ai servizi statunitensi le porte di mercati cui questi hanno avuto, finora, un accesso limitato. Nella pratica, l’introduzione delle misure ha sollevato vari problemi, come in occasione del ‘Liberation Day’ (2 aprile), quando la reazione delle Borse alla politica dei dazi reciproci (reciprocal tariff policy) ha spinto la Casa Bianca a una rapida retromarcia. Nei mesi seguenti, la linea di Washington è stata ondivaga, con un susseguirsi di annunci contraddittori, che si sono fatti più frequenti con l’approssimarsi della scadenza della moratoria attualmente in vigore.

Dal 2 aprile, Washington ha siglato accordi, ultimo dei quali l’accordo quadro con l’Unione Europea di fine luglio. I giudizi sul loro valore sono diversi. Secondo i critici, si tratta, in genere, di accordi di portata limitata e che portano, agli Stati Uniti, benefici piuttosto modesti. I favorevoli rilevano come le scelte dell’amministrazione abbiano comunque indotto le controparti a trattare, permettendo a Washington di spuntare condizioni migliori rispetto a quelle vigenti in precedenza. Anche i giudizi sulle ricadute macroeconomiche sono contrastanti. Particolarmente critico è stato, in questi mesi, il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell (nominato nel 2018 proprio da Trump), che ha espresso vari dubbi riguardo ai possibili effetti negativi dei dazi sull’inflazione e sulla crescita, sottolineando, fra l’altro, come proprio la politica commerciale della Casa Bianca sia, oggi, il maggiore ostacolo al taglio dei tassi di interesse che il l’amministrazione chiede ormai con insistenza.

L’incognita è ciò che accadrà dopo il 1° agosto. Secondo la Casa Bianca, per i paesi con cui non vi sono accordi specifici, il ‘dazio universale’ del 10% oggi in vigore dovrebbe crescere al 15 o al 20%, ma, ufficialmente, la misura è ancora allo studio e anche in questo caso le voci che circolano sono le più diverse. Questa ambiguità è in buona in parte voluta. In questo come in altri campi, l’incertezza è vista, da Trump e dai suoi collaboratori, come lo strumento più efficace per spingere la controparte a fare concessioni. Anche le reazioni seguite ai dazi del ‘Liberation Day’ possono giustificare una certa cautela. D’altro canto, sebbene i dati macroeconomici per il secondo trimestre 2025 concorrano a tratteggiare un quadro ‘a luci e ombre’, questo appare, nel suo insieme, più positivo di quanto avevano ipotizzato molti osservatori: nonostante una crescita rallentata e il permanere di diverse difficoltà, l’economia statunitense starebbe, quindi, mostrando una resilienza largamente inaspettata.

Sul piano concreto, questa situazione potrebbe indurre il Presidente a ‘premere sul gas’ delle sue politiche, consolidando la linea dura minacciata in diverse occasioni. L’accordo-quadro raggiunto con l’Unione Europea, che garantisce a Washington una serie di benefici non solo in materia di dazi, potrebbe spingere nella stessa direzione. Il fatto che – sul fronte dei rapporti con la Cina – siano in corso negoziati per prorogare la moratoria oggi in vigore fino al 12 agosto porta anch’esso acqua al mulino di Washington. Sebbene una chiusura in tempi brevi del dossier appaia improbabile, riuscire a evitare un ritorno alla guerra commerciale con Pechino consente, infatti, alla Casa Bianca di avere le mani libere per trattare con gli altri interlocutori da una posizione di forza; questo a maggiore ragione da quando le trattative sui dazi sono diventate, per l’amministrazione, uno strumento da sfruttare per ottenere dalle controparti concessioni anche in ambiti non strettamente commerciali.

Il punto-chiave sta nella capacità, per gli Stati Uniti, di evitare ritorsioni troppo pesanti. In sintesi, i risultati finora conseguiti dalla politica commerciale di Donald Trump sono dipesi anzitutto dalla convinzione degli interlocutori che i costi di una strategia di ritorsione sarebbero stati molto maggiori di quelli derivanti dall’accettare una ridefinizione dei rapporti di scambio. Come hanno affermato gli stessi vertici dell’UE, la posizione che ha prevalso è stata, di fatto, quella di puntare al migliore accordo possibile, partendo dal presupposto che il mondo pre-2 aprile sia definitivamente passato. Non si tratta, ovviamente, dell’unica posizione possibile, come dimostrano, per esempio, la dura risposta di Pechino all’introduzione dei dazi reciproci e la breve sequenza di ritorsioni e contro-ritorsioni dei giorni seguenti. La capacità di risposta degli Stati Uniti a una strategia di questo tipo non è ancora stata davvero messa alla prova, né è chiaro che impatto avrebbe sullo scenario macroeconomico.

Finora, l’amministrazione è riuscita, quindi, ad aumentare in modo significativo i dazi in entrata evitando ritorsioni da parte dei partner e ottenendo da questi una serie di vantaggi aggiuntivi. È, però, difficile che ciò permetta di risolvere davvero il problema del deficit commerciale. Sebbene politicamente pagante, l’attenzione alla dimensione bilaterale non tiene conto di come – in un mondo di catene del valore globali e di reti di produzione complesse – il peso di questa dimensione sia, tutto sommato, limitato. In secondo luogo, il successo della politica statunitense dipende soprattutto dalla posizione dei partner. L’esperienza suggerisce però che, alla fine, i paesi rispondono alle restrizioni commerciali, vuoi con ritorsioni dirette, vuoi con strategie di differenziazione che limitino la loro vulnerabilità: una scelta, quest’ultima, che potrebbe non essere priva di rischi per gli interessi di Washington, tenuto conto del peso crescente della Cina e dell’attenzione con cui vari paesi, dentro e fuori l’Europa, stanno guardando a Pechino e a un suo possibile nuovo ruolo sui mercati internazionali.