La transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio, comunemente nota come transizione verde, sta influenzando in modo profondo l’evoluzione recente del sistema economico, affermandosi come uno dei fenomeni più pervasivi nelle scelte degli attori sui mercati finanziari globali. Infatti, la finanza sostenibile è cresciuta nell’ultimo decennio ad un passo talmente rapido da non potersi più considerare come una nicchia riservata a investitori spinti da motivi etici, né un semplice esercizio reputazionale.
Oggi, integrare obiettivi di sostenibilità nelle scelte finanziarie rappresenta un elemento strutturale parte della strategia aziendale e di una leva di competitività nel lungo periodo. Nello studio “Climate transition and the speed of leverage adjustment”, frutto della collaborazione fra le università Bocconi e LUM Giuseppe Degennaro, gli autori, prof. Maurizio Dallocchio, prof. Massimo Mariani e i ricercatori, Francesco D’Ercole e Domenico Frascati analizzano un campione di 849 imprese quotate comprese nell’indice S&P Global 1200 e osservate tra il 2010 e il 2022 per rispondere ad un quesito fondamentale: l’integrazione di strategie attive verso la transizione sostenibile rappresenta oggi una leva di creazione di valore per le aziende?
Attraverso l’applicazione di un modello econometrico a due stadi, lo studio mostra che le imprese più attente a cogliere le opportunità insite nel processo di transizione verde e più abili ad integrarle nelle loro strategie aziendali, sono caratterizzate da una maggiore flessibilità finanziaria, grazie alla capacità di accedere al capitale a costi più bassi e avvicinarsi più rapidamente a una struttura finanziaria “ottimale” secondo i principali Key Performance Indicators finanziari. In altre parole, le imprese che pongono la transizione al centro della propria visione strategica non solo migliorano la propria immagine pubblica, ma ottengono vantaggi tangibili sul piano finanziario. I benefici sono evidenti: una migliore capacità di adattamento al contesto regolatorio e una più agevole raccolta di risorse sul mercato ad un costo medio del capitale ridotto.
Al contrario, le aziende più esposte ai rischi della transizione, in particolare se appartenenti a settori altamente inquinanti, si trovano a fronteggiare costi di finanziamento in aumento e accesso al capitale più difficile. La transizione climatica, quindi, è ormai una leva strategica cruciale. Le imprese che ignorano la transizione rischiano sempre di più di essere penalizzate e tagliate fuori dai mercati. L’assenza di una chiara integrazione strategica della salvaguardia del clima espone le società a una crescente incertezza regolatoria, con maggiori costi di compliance e una reputazione compromessa agli occhi degli investitori. Tutto questo si traduce in banche e mercati che richiedono rendimenti più alti per compensare il rischio di asset bloccati o non più competitivi, come impianti altamente inquinanti con alta intensità di carbonio. Il risultato? Una struttura del capitale più fragile, sbilanciata e un profilo di rischio crescente, che allontana investitori e partner finanziari.
In questo scenario, le istituzioni giocano un ruolo cruciale. Politiche chiare, stabili e orientate alla transizione, come incentivi fiscali, sussidi alla green economy e obblighi di disclosure climatica, offrono alle imprese la certezza necessaria per pianificare investimenti a lungo termine. È proprio questa visibilità che consente alle aziende maggiormente virtuose di anticipare i cambiamenti e posizionarsi meglio sul mercato.
Non sorprende, dunque, che l’Europa, dove la regolamentazione ambientale è più solida e integrata, mantenga un’alta attrattività per gli investitori sostenibili. Al contrario, il ritorno del presidente Donald Trump alla Casa Bianca, con la sua ostilità nei confronti delle politiche ambientali, ha scosso il mondo della finanza sostenibile, almeno negli Stati Uniti, contribuendo ad incrementare l’incertezza attorno ai benefici di un impegno ambientale da parte delle imprese.
Come conseguenza, alcuni CEO americani stanno già facendo marcia indietro sui propri impegni ambientali. La battuta d’arresto nelle politiche di transizione statunitensi potrebbe ostacolare temporaneamente l’avanzata dell’agenda verde negli USA. Tuttavia, la direzione di marcia non sembra destinata a invertirsi completamente. Negli Stati Uniti, molti investimenti “sostenibili” oggi vengono riposizionati sotto etichette più accettabili per l’opinione pubblica maggiormente conservatrice, come “sicurezza energetica” o “rilocalizzazione della produzione”, pur mantenendo di fatto gli stessi obiettivi climatici. Può questa ondata verde resistere? Sicuramente il focus di lungo periodo degli investitori più attenti alla sostenibilità è una delle più importanti dinamiche strutturali che caratterizza il mondo della finanza sostenibile. In particolare, la crescente domanda di investimenti sostenibili da parte degli investitori. Inoltre, i costi dell’inazione climatica non appaiono legati a cambiamenti politici, e sono destinati a rafforzarsi man mano che le conseguenze tangibili del cambiamento climatico si manifestano.
Le imprese che hanno già investito in rinnovabili, efficienza energetica e supply chain sostenibili saranno più protette da eventuali strappi normativi. Anche se gli incentivi possono variare, la solidità delle aziende più pronte alla transizione continuerà a garantir loro una posizione di vantaggio competitivo.
L’incertezza politica americana rappresenta senz’altro una sfida, ma il cambiamento verso un paradigma che integri la sostenibilità nelle strategie aziendali è destinato ad andare avanti, lentamente ma inesorabilmente. Chi ha investito per tempo oggi raccoglie i frutti di un accesso più agevole ai capitali, costi di finanziamento più bassi e maggiore agilità strategica. Chi invece ha ignorato la transizione rischia di pagare un prezzo sempre più alto.